venerdì 1 ottobre 2010
Il neologismo del giorno
Nel frattempo cerco di realizzare un utile dizionario italiano-salentino, che possa essermi d'aiuto nello scrivere racconti, poesie. Nel fare ciò cerco di aiutarmi con i dizionari già esistenti, anche se molto spesso esistono parole in italiano che non hanno corrispondente in salentino. Si tratta perlopiù di termini abbastanza colti, e non utilizzati nel linguaggio comune. Molte volte si tratta di parole il cui significato è sconosciuto alla maggior parte di noi italiano-parlanti. Cosa fare con queste parole? Ed è qui che interviene la mia attività... chiamiamola "creativa"... risalgo alla possibile etimologia della parola italiana (o magari catalana/spagnola) e cerco di salentinizzarla... la creatività consiste nel non realizzare una semplice trasformazione fonetica, ma anzi derivare la parola dall'etimologia...
Il neologismo di oggi è la parola abbacinare:
Abbacinàre significa accecare tenendo dinanzi agli occhi aperti del condannato un bacino rovente. Nella costruzione della parola interviene bacino, che in salentino è limbu/limmu. Per questo il neologismo proposto oggi è llimbare/llimmare.
A presto :)
domenica 8 agosto 2010
Una bandiera sventola nella Plaça de Sant Jaume, dal palazzo di origine medievale che è oggi conosciuto come Palau de la Generalitat, sede della presidenza della Catalunya. Sullo sfondo color dorato son disegnate quattro bande di un vivido color rosso.
Una delle leggende sull’origine della “Senyera”, una delle bandiere più antiche d’Europa e forse la prima ad essere usata come bandiera di uno stato, afferma che, ai tempi dell’assedio di Barcellona da parte dei mori (IX secolo), il re Carlo il Calvo tracciò con le sue dita insanguinate quattro righe sullo scudo dorato del moribondo Goffredo il Villoso, conte di Barcellona e considerato fondatore della nazione catalana. Qualunque sia la vera origine e la datazione della Senyera (la leggenda è falsa in quanto contiene un anacronismo: Carlo il Calvo morì 20 anni prima di Goffredo il Villoso), venne adottata dai sovrani della corona d’Aragona ed utilizzata nei territori da loro conquistati. Un delfino guizzante fu aggiunto per formare lo stemma della circoscrizione della Terra d’Otranto, al quale venne messa in bocca una mezzaluna quando Alfonso d’Aragona fu protagonista di una nuova vittoria contro gli invasori islamici, in questo caso di etnia turca, nel 1481. Quello stemma, leggermente modificato, è usato ancor oggi, a più di mezzo secolo di distanza dalla vittoria degli aragonesi, come stemma della provincia di Lecce.
Il dominio aragonese non ha lasciato traccia di sè solamente nell’araldica salentina e nei colori con cui è identificato il Salento (Gjallurussu e’ lu culure, comu lu sule, comu lu core. Unu è fŭecu e l’àutru e’ amore). Aragonese è infatti il castello d’Otranto, ricostruito dopo la già citata vittoria contro i turchi. Un’altra importante traccia aragonese è il castello di forma trapezoidale eretto ad Acaya, frazione di Vernole, da Gian Giacomo dell’Acaya in periodo rinascimentale. Anche numerose torri di avvistamento costiere furono costruite in quel periodo con funzione antisaracena e sono ancor oggi visibili da colui che percorre il litorale salentino.
Meno visibili rispetto ad una torre, ad un castello, o al giallo ed al rosso šcattusi, sono le tracce che il catalano, lingua utilizzata nelle corti aragonesi, ha lasciato nelle parlate della Terra d’Otranto. Numerose sono infatti le somiglianze, gli elementi lessicali e grammaticali che, a volte evidenti, a volte un po’ nascoste, possono essere trovate nelle lingue salentina e catalana. A volte tali somiglianze possono essere spiegate con la comune provenienza di ambedue dalla lingua latina, mentre altre volte si tratta dell’influenza culturale della lingua catalana sui vernacoli del volgo.
Non sono un linguista, e mi sono avvicinato da pochissimo tempo all’affascinante mondo dell’etimologia. Ciò nonostante cercherò di riassumere brevemente alcune osservazioni da me effettuate nel periodo trascorso nella Catalunya, patria della lingua catalana, per motivi di studio. Ciò che dirò avrà valore di semplici osservazioni linguistiche: rimando a persone più dotte, istruite maggiormente sul tema, ed interessate ad approfondire, il verificare la bontà di ciò che dirò.
Il viaggiatore salentino che ascoltasse per la prima volta parlare un catalano rimarrebbe colpito dalla notevole diffusione, se confrontata con le lingue italiana e spagnola, del suono vocalico [u], un’abbondanza che è presente anche nel salentino. Il sistema vocalico catalano è formato da ben 8 vocali, le stesse della lingua italiana con l’aggiunta della vocale neutra ә, quel suono a metà fra una [a] e una [e] presente, ad esempio, nella lingua napoletana. La particolarità del catalano è che, sebbene nella scrittura siano presenti sia la ‘o’ che la ‘u’ in posizione atona, entrambe le lettere si pronunciano con il suono di u (la o si pronuncia come tale solo quando è vocale tonica). Il fenomeno della neutralizzazione di [o] e [u] atone in [u] è presente anche nella lingua salentina, la cui ortografia ha sempre risentito dell’influsso dell’ortografia italiana particolarmente trasparente dal punto di vista fonologico (più o meno, le parole si pronunciano
esattamente come si scrivono). Tale particolarità, da sola, crea una grandissima quantità di analogie tra le due lingue catalana e salentina. A titolo di esempio:
[SAL] jeu parlu [CAT] jo parlo (pron: parlu)
[SAL] jeu tornu [CAT] jo torno (pron: tornu)
[SAL] nui turnamu [CAT] nosaltres tornem (pron: turnem)
[SAL] unore [CAT] honor (pron: unór)
[SAL] cumeta [CAT] cometa (pron: cumeta)
Si tratta di un elenco lunghissimo (sfogliando un dizionario catalano si possono trovare tantissimi altri esempi). Il fenomeno della neutralizzazione è tipico delle lingue meridionali estreme (salentino, calabrese meridionale e siciliano) e della lingua sarda. Lingue parlate in zone dell’Italia che fecero parte della Corona d’Aragona in epoca medievale. Non mi stupirebbe affatto che sia proprio nel periodo di dominazione catalana che vada ricercata la comparsa di tale fenomeno fonetico nella lingua salentina.
Un’altra caratteristica notevole che accomuna il salentino alle lingue iberiche è la terminazione in –ia dell’imperfetto dei verbi della seconda e terza coniugazione. Si ha quindi in catalano: jo tenia, jo volia (pron: vulía), jo dormia (pron: durmía).
Altre piccole somiglianze riguardano l’uso dei verbi essere (ser), stare (estar), avere (haver), tenere (tenir). Come è ben noto, in salentino l’uso di questi verbi è molto diverso rispetto all’italiano. A volte fonte di confusione e di errori nel parlare italiano, è in realtà un potentissimo vantaggio per chiunque voglia apprendere una lingua iberica (catalano, spagnolo e, credo, anche portoghese): nella quasi totalità dei casi sarà sufficiente effettuare una sorta di traduzione letteraria dal salentino alla lingua straniera. In catalano il verbo ser è utilizzato per esprimere qualità permanenti ([SAL] ete àutu [CAT] és alt) al contrario del verbo estar legato a qualità transitorie ([SAL] stau malatu [CAT] estic malalt ; [SAL] ddò stai? [CAT] on estas?). La possessione di qualcosa (oggetto o relazione famigliare) non è espressa dal verbo haver bensì dal verbo tenir ([SAL] tegnu nnu prubbrema [CAT] tinc un problema, pronuncia: prublema; [SAL] tènenu tre frati [CAT] tenen tres germans). Infine il verbo haver è utilizzato come ausiliare per la costruzione di tutti i tempi composti, anche dei verbi intransitivi ([SAL] aggju scjutu [CAT] he anat; *SAL+ ‘íamu turnati [CAT] havíem tornat) nonché per la costruzione perifrastica haver de + infinito equivalente al salentino air’a + infinito ([SAL] ann’a vvíncere [CAT] han de vèncer): cambia la preposizione ma la costruzione è molto simile.
Infine non è da escludere che la congiunzione e pronome relativo ca, sebbene di origine latina (dai vari quem, quid, quia, quam), potrebbe essere un importante prestito linguistico catalano. Il catalano que, per effetto della neutralizzazione delle vocali atone [e] ed [a] in [ә], si pronuncia [kә] e, quindi, molto simile, per chi non ha l’orecchio abituato al suono della “e neutra”, al salentino ca ([SAL] La cristjana ca imu truatu [CAT] La dona que (kә) hem trobat).
Ecco alcune delle somiglianze lessicali tra catalano e salentino da me trovate in questi ultimi mesi:
an: preposizione in; simile al catalano en (per la già citata neutralizzazione [e],[a] -> [ә] si pronuncia әn quindi prossimo nel suono ad [an]): [SAL] an celu [CAT] en cel (pron: әn sέl)
buccare: capovolgersi, ribaltarsi; simile al catalano bolcar (pron: bulcà) derivato dal latino volgare volvicare;
cascja: cassa; identico nella fonetica al catalano caixa (che ha anche il significato di “banca”). Dal latino capsa.
ddunarsi: accorgersi, rendersi conto; l’etimologia proposta dal Garrisi è il lat. volg. addo(vi)nare; comunque è probabile che possa essere un prestito del catalano adonar-se (pron. adunarse), anche perché nella lingua siciliana, come ben noto parente stretta del salentino, il termine appare per la prima volta all’inizio del XIV secolo nel “Libru de lu dialagu de sanctu Gregoriu” di Giovanni Campulu: Kistu monacu davanti de li monachi paria ki fachissi abstinencia ma jn privatu maniava e saturàvassi benj: li monachi non si nde adunavanu de zo ki fachìa.
mbojacatu: frattaglie di carne ravvolte in budello (è un termine registrato dal Rohlfs ed utilizzato a Galatina e Maglie per indicare gli gnummarjeḍḍi / turcinjeḍḍi); in catalano l’involtino è l’embolicat, dal verbo embolicar (avvolgere) di origine incerta, che potrebbe derivare dal latino bulla o, più probabilmente, dalla radice indoeuropea wol- : avvolgere, girare, curvare.
muccaturu: fazzoletto da naso; Rohlfs propone come etimologia: *lat. *muccatorium ‘panno per il moccio’, base anche del franc. mouchoir]. Simile al catalano mocador (pron: mucadó). Nella lingua siciliana, nonostante l’origine latina, è di origine catalana e registrata per la prima volta nel 1464. Potrebbe essere un prestito anche nel salentino.
nsurtu: spavento; simile al catalano ensurt, dal latino volgare insŭrctus, participio di insŭrgĕre (alzarsi improvvisamente).
prescjarse: rallegrarsi; l’origine è il latino pretiare; resta da verificare se possa essere stato introdotto dai catalani attraverso il loro prear-se (vantarsi, gloriarsi, lodarsi) di uguale etimologia.
scarfare: scaldare, riscaldare; simile al catalano escalfar, proveniente dal latino volgare calefare, riduzione del latino calefacĕre;
vanna: banda, parte, lato; nonostante “banda” sia presente anche in italiano con lo stesso significato di vanna, è una forma decisamente caduta in disuso (credo di non averla mai sentita, e solo un controllo sul dizionario italiano mi ha messo al corrente della sua esistenza); al contrario in catalano è ancora molto utilizzata ([SAL] de nna vanna a ll’àutra [CAT] de una banda a l’altra)
vašcju, vašcja: basso, bassa; simile nella fonetica al catalano: baix, baixa (pron: [bá∫] – [bá∫ә]); dal lat. bassus.
Il problema della provenienza delle parole di origine latina, quando sono presenti nelle lingue di popoli che hanno avuto forte influenza sulla lingua oggetto di studio, richiede studi più approfonditi. Spesso, in assenza di documenti che testimonino l’evoluzione della lingua, è difficile capire quali parole siano state utilizzate con continuità fin dai tempi della gloriosa Roma e quali parole siano state ingoiate dalle sabbie del tempo per poi essere reintrodotte secoli dopo da popoli invasori di lingua neolatina. In ogni caso trovo suggestiva l’idea di uno stretto legame tra il nostro popolo e quello catalano, risalente ad un tempo in cui i nostri avi e i loro avi potevano considerarsi compatrioti, ed ancora presente nei tratti comuni conservati dalle nostre lingue.
Chiudo, in attesa dei vostri commenti, delle vostre critiche e delle vostre riflessioni, con un breve pezzo tratto dal libro di una filologa catalana, Carme Junyent, che fa riflettere sullo sforzo che la nostra generazione è chiamata a compiere per evitare la morte della nostra lingua a causa della seducente tentazione del monolinguismo (problematica molto sentita dai catalani visto che la loro lingua è stata a lungo in pericolo a causa dell’importanza culturale della lingua spagnola, della quale il catalano era considerato un dialetto).
Quan es redueixen les funcions d'una llengua (en quina llengua parlo amb la família, els amics, els companys de feina o d'estudi, el senyor director o la dona de fer feines, els desconeguts, el bidell, el dependent, el metge o el jutge...) ja estem lluitant amb el pitjor dels enemics: l'invisible. [...] Quan es degrada l'estatus d'una llengua i - sobretot - el dels seus parlants (parlar la llengua pròpia implica ser titllat de provincià, xovinista, retrògrad, etc.), ja podem buscar ràpidament un contrapés a la pressió, si no volem que la comunitat es llenci de ple al món feliç que li ofereix la llengua dominant.
Carme Junyent - Vida i mort de les llengües
Cŭandu se rendúcunu le funzjoni de nna lingŭa (an cce lingŭa parlu cu lla famigghja, cu lli amici, cu lli cumpagni de la fatia o de li studi, cu llu signure direttore o cu lla donna ca face li lavori, cu lli scanuscjuti, lu bitellu, lu tipendente, lu tuttore o lu gjútice...) gjà sta’ lluttamu contra llu nemicu chjú ffjaccu: l’invisíbbile. *...+ Cŭandu se mputtaniscja la cundezjone de nna lingŭa e, prima de tuttu, cŭiḍḍa de ci la parla (parlare la lingŭa propja ímplica éssere cunsiteratu pruvincjale, scjovinista, stravivu, etc.), gjà putimu cercare velocemente nnu cuntrupisu a lla pressjone, ci no vvulimu ca la cummunitate se mena ritta ritta a llu mundu felice ca le offre la lingŭa duminante.
domenica 1 agosto 2010
Lu sarvataggju
Lu clobbu ardente sta’ ccuncrutia la soa ljenta calata mberu l’uriżżonte. Li soi rasci càuti tingíanu lu celu statòticu cu nfenite spumature te culuri: viola ḍḍa ddu lu mmensu celu tuzzava contra llu mare, te culure portucallu chjú ssobbra, ma puru te rosa e tte russu fenca spumare a nn’ażżurru ca dêntava sempre chjú ccupu, chjú gnuru, chjú nnotte. Lu mare, rappulatu pe lli leggeri soffi te lu jentu, rrefrettia te l’astru la càuta luce, ca paria cŭasi danzare sobbra la soa superfice: nnu spettaculu ca la natura prupunia ogne ddia, sempre símele ma mai ucŭale, picca misterjusu ma ognemmotu chinu te mascia.
Subbra lla cima te lu prumuntorju, úrtima punta te l’ísula, nna vagnona usservava cu attenzione lu paesaggju straurdinarju. La luce te lu sule llumenava te ‘sta vagnona li lŭenghi capiḍḍi ca, llušcjati te li rèfuli te jentu, comu fili durati se mmuíanu intra ll’àrja. La soa ŭardata era pjersa mberu cŭiḍḍu postu màscicu, refuggju scundutu ca picca cristjani canuscíanu. Iḍḍa fice nnu passu mberu lu spuntune, cunfine làbbile ca divitia l’ísula te lu mmensu mare, e ttoppu fice nn’àutru passu, e ncora nn’àutru, fenca rriau a lla punta. Nn’àttemu te pendurícula , e ttoppu abbašcju, abbašcju mberu li cupi scuffundi , nnu zumpu ca rrepetia ogne ssira e cca la facia sèntere viva te neu, cŭasi fusse nnu ritu te beruta .
Chjutiu li ŭecchi piccè te cŭiḍḍa manera putia sèntere chju ffŭerti le sensazioni ca pruava. Ntise l’àrja ca la llušcjava, la sprušcjava pe ssubbra, uppunia nn’inútele resestenzja a lla soa catuta. E ttoppu, a ll’antresattu , putiu vvèrtere lu scŭentru cu ll’accŭa, e nnu sensu te friddu pe llu passaggju, propria an cŭiḍḍu puntu, de nna currente scelata. Surtantu llora apriu li ŭecchi, ca putera vítere lu fundale marinu beḍḍu de bonesinnu , ca dêntava chju ccupu frattantu ca la luce te lu sule lassava l’ísula.
Ma cŭarcheccosa sciu stŭertu e, puru ci la vagnona era nn’àbbele nnatatrice, an cŭiḍḍu puntu la currente era troppu forte. L’accŭa la pigghjau e ccumenzau cu lla face ggirare turnu turnu a nnu puntu, lu centru de cŭiḍḍu vòrtice ca l’era catturata. No ssapia comu scappare te cŭiḍḍa trampa , te la natura ca la rechjamava a sè e ca paria cŭasi ca no lla vulia lassare. Lu pànicu cuncŭistau lu core sou, lu stessu fícera la desperazjone, la paura, lu sensu te imputenzja te nanzi a lla forza te lu mare.
Iḍḍa se tuffava ogne ddia an cŭiḍḍu postu màscicu, e ogne ffiata se sentia beríscere , comu ci l’accŭa te lu mare putia llâre la lurdaria, la fatia, lu dulore ca era mmuntunatu . E nno ll’era mai capetatu njenti. Fena ccŭiḍḍu mumentu.
Lu cŭerpu era crande crande, criggju cu ccrŭesse macchje bjanche, símbuli ca la natura era tisegnatu ḍḍa ssobbra, cŭasi fússera frízzuli de nnu musàicu. Nnu musu ngrazziatu cu ddo’ ŭecchiceḍḍi spjerti e simpateci fŭèrunu l’úrtema cosa ca vitiu, prima cu lla banduna la cuscenzja. Nnu fišcu l’úrtemu sŭenu.
Se dešcetau su lla spjaggja, sana e ssarva, cu nnišcjuna memorja te cuiḍḍu ca era successu, nišcjuna idea te cŭantu tjempu era passatu. Lu celu era gjà notte, cu lla luna argentata ca ddumava l’arja, rrefrettendu la soa luce intra llu mare. Tussau, caccjandu l’accŭa ca s’era feccata intra llu pjettu sua e, cu nnu spuersu, reusciu cu sse minte an peti. Ŭardau mberu lu mare llumenatu e lle parse cu vvite ca an luntananza nn’aletta se nde sta’ šcia. Sapia ca cŭiḍḍu crande derfinu l’era sarvata.
martedì 27 luglio 2010
A
1) può assumere la funzione di descrivere un movimento, verso persona o luogo (p.e. Vocu a Francaidda) con la particolarità di raddoppiare il suono della eventuale consonante iniziale della parola seguente nel caso in cui il suono normale fosse singolo. Ciò è evidente nella costruzione delle preposizioni articolate: a llu, a lla, a lli, a lle. A tal riguardo si possono trovare normalmente le due differenti ortografie, quella che prevede preposizione e articolo scritti come un'unica parola, e quella che li prevede separati. Personalmente preferisco quest'ultima scelta, da mantenere coerente con tutte le altre preposizioni. Un esempio di movimento verso persona: salute a tteni, dove il pronome te vede la t iniziale raddoppiarsi, nonché l'aggiunta del suffisso ni che, citando il lavoro "Pugliese e salentino: alcuni fenomeni fonologici" di Stefano Canalis, viene aggiunto per mantenere un ritmo binario. Rimando comunque all'articolo citato per ulteriori approfondimenti, mi sembra un tema abbastanza complicato da comprendere per chi non mastica bene il mondo della metrica.
2) può assumere la funzione di complemento di stato in luogo. In questo caso non v'è raddoppiamento dell'eventuale consonante iniziale della parola successiva, ma può esserci l'aggiunta della lettera n alla preposizione: stae an terra (è a terra);
3) introduce il complemento oggetto personale, in questo caso c'è il fenomeno del raddoppiamento fonosintattico: lu vogghju ddocu a tteni (lo voglio dare a te);
4) in composizione con comu e cŭantu, anche in questo caso c'è il raddoppiamento fonosintattico: comu a nnu martieḍḍu (come un martello), àutu cŭantu a nnu palazzu (alto quanto un palazzo);
5) Può congiungere due verbi di uguale tempo e persona, con raddoppiamento fonosintattico: Me vogghju a llavu (mi voglio lavare), no vogghju a vvau (non voglio andare), no vvulia a ddurmia (non voleva dormire, suggerisco di scrivere la forma abbreviata: no vvuli'a ddurmia per mettere in evidenza la presenza della a congiunzione). In questo caso vale la pena osservare che, come spesso capita nella lingua salentina, frasi che in italiano richiederebbero il verbo nella forma infinita, in salentino richiedono la forma indicativa del verbo.
6) Locuzione: a cci, col senso di "colui che", "chiunque" (p.e. a cci vole vole : chiunque voglia)
7) Insieme al verbo aire: air'a corrispondente all'italiano "dovere", si mantiene nelle forme della coniugazione, p.e. agghju + a + scere per "devo andare" -> agghj'a šcere, per il raddoppiamento fonosintattico la s si è trasformata in š.
Con questo al momento chiudo, presto aggiungerò in un altro posto le funzioni di "a" quando è troncamento di un'altra parola :P
domenica 25 luglio 2010
Dedeca a soa ccellenza
se nu parlu lu Francese,
nu pe quistu me russiscu
cu te parlu alla Leccese
Ogne lingua (nu se nnega)
mbasciatrice è de la mente
e le cose tutte spiega
comu l'anima le sente.
- Francisc' Antoni d'Amelio
martedì 20 luglio 2010
La moussaka
MOUSSAKA (Crecja)
INCREDJENTI (pe cŭattru cristjani):
Nnu chilu de marancjane
Do’ cucchjari de ŭegghju d’ulia
Nna cepuḍḍa crande tagghjata fine fine
Cŭattrucentucincŭanta crammi de carne de vitellu macenata
Nnu bicchjere de mjeru bjancu
Bescjamella
Nnu chilu de pummitori
Sale, pipe, arjenu e petrusinu
Vinticincu crammi de casu rattatu
Cŭattru patati crŭesse
Eti assai mpurtante usare marancjane frische! La carne se po’ pprepara’ puru lu scjurnu prima, ma li marancjane l’a’ pprepara’ lu scjurnu stessu!
1) Preparazione de la carne
Suffríscere le cepuḍḍe tagghjate fine fine ntra ddo’ cucchjari de ŭegghju fenca ffarle mbrunire. Doppu scjúngere la carne e cucenare tuttu nsjemi fenca la carne ccumenza a ccancjare de culure. A cŭistu puntu scjúngere lu mjeru, li pummitori tagghjati fini, li ndori, lu sale e lu pipe. Ncuperchjare e cucenare pe vvinti minuti fenca l’accŭa de cuttura de la carne ‘e ssurbuta cumpretamenti, mmešcandu cu no’ ss’attacca. An fine scjúngere lu petrusinu e lu casu rattatu.
2) Preparazione de le marancjane
Tagghjare le punte de le marancjane, ma senza nnettarle. Scjaccŭarle e uttenire fette de menu de nnu centímetru de spessore; doppu minterle sutta sale, lassarle nnu picca a repusare, e scjaccŭarle nn’àutra vota. Fríscerle ntra ŭegghju de sementi, cu llu fŭecu bašcju, fenca dêntare leggermenti durate de tutti do’ lli lati, doppu lassarli sculare sobbra la carta ssurbente. Cci vŭè nna versione nnu picca chjú leggera, mbece cu frisci li marancjane, li pue’ cucena’ ntra llu furnu o sobbra nna pjastra.
3) Preparazione de li patati
Li patati vannu tagghjate fine fine e sartate ntra nna patella cu ŭegghju de sementi. Cci vŭè nna versione chjú leggera, li patati ponnu èssere delessate.
4) Preparazione de la moussaka
Ntra nna tegghja fare nnu stratu cu mmetà de le marancjane. Cuprire cu nn’àutru stratu de patati. Cuprire cu llu cumpostu de carne preparatu prima. Cuprire cu nn’àutru stratu de marancjane. An fine cuprire tuttu cu lla bescjamella, casu rattatu e nnu picca de pane rattatu.
Cucenare ntra llu furnu pe nn’ora a 180ºC, fenca sobbra la superfice s’e ffurmata nna scorza scura.
Lassare ddefríddere pe llu menu 10 minuti prima de servire.
mercoledì 14 luglio 2010
Tavole di coniugazione aire,èssere e putire
Ho preparato il layout per le tavole di coniugazione dei verbi, e qui di seguito posto le tabelle per i verbi aire (avere), èssere (essere) e potere (putire/pòtere). Per riempirle ho cercato di prendere spunto dalla versione leccese del salentino, ma non solo (infatti sono presenti varie forme verbali per lo stesso modo-tempo-persona):
Se avete proposte per modificarle, lasciate un commento. Ho voluto includere anche notevoli arcaismi come il condizionale (ormai sostituito quasi ovunque dall'imperfetto indicativo), il congiuntivo (anch'esso poco utilizzato) e un interessante paio di forme per il futuro del verbo èssere che ho trovato citate sul Rohlfs :P
domenica 13 giugno 2010
Istitutu de lli studi salentini
Il cammino da effettuare è lunghissimo e, sebbene sia ancora giovane, forse non vedrò il salentino affermarsi come lingua all’interno della penisola salentina, ed essere riconosciuta come tale. Ciò nonostante credo che anche questi piccoli gesti, come la creazione di un’associazione che spero raccoglierà interesse in chi, come me, ama la propria terra e la propria cultura, aiuteranno la preservazione e la difesa d’essa.
Sto scrivendo una bozza di un possibile statuto costitutivo di tale organizzazione, con l’obiettivo di creare una versione definitiva e rendere operativa al 100% l’associazione, mediante una sua registrazione negli appositi registri. Ho voluto includere negli scopi anche la preservazione e la diffusione di altre due lingue minoritarie e forse ancora più in pericolo rispetto alla lingua salentina: il griko, parlato nella Grecia Salentina, e l’ärbereshë, parlato a San Marzano di San Giuseppe. Non mi interesserò personalmente a tali lingue, ma credo che sia ugualmente importante fare qualcosa per salvaguardarle, e spero che anche tali sezioni diventino operative con l’interesse di qualche parlante animato dall’amore per la propria lingua e la propria cultura.
Qui di seguito l'attuale bozza dello statuto dell'organizzazione:
ARTICOLO 1 – Denominazione e scopi dell’associazione
L’Istitutu de lli studi salentini è un’associazione che ha per obiettivo la ricerca e lo studio di tutti quegli elementi che costituiscono la cultura salentina.
ARTICOLO 2 – Finalità
Costituiscono finalità dell’Istitutu de lli studi salentini: a) Studiare la lingua salentina, stabilirne una norma linguistica che possa essere utilizzata in tutta la penisola per scopi ufficiali e per l’insegnamento nelle scuole, e vigilare affinché tale norma rimanga coerente alle varietà linguistiche effettivamente parlate nella penisola; promuovere e agevolare lo studio di tale lingua. b) Studiare la lingua grika, stabilirne una norma linguistica che possa essere utilizzata nell’area della Grecia Salentina, e vigilare affinché tale norma rimanga coerente alle varietà linguistiche effettivamente parlate in tale area; promuovere e agevolare lo studio di tale lingua; instaurare connessioni culturali con i comuni della Bovesia. c) Studiare la lingua arbëreshë, stabilirne una norma linguistica che possa essere utilizzata nel comune di San Marzano di San Giuseppe, e vigilare affinché tale norma rimanga coerente alla lingua effettivamente parlata in tale comune; promuovere e agevolare lo studio di tale lingua; instaurare connessioni culturali con le altre zone dell’Arberia. d) Dare un impulso alla diffusione della cultura salentina, alla preservazione e salvaguardia delle sue tradizioni, e allo sviluppo culturale della società.
ARTICOLO 3 – Lingue utilizzate
Le lingue utilizzate dalll’Istitutu de lli studi salentini sono il salentino, il griko, l’arbëreshë e l’italiano.
sabato 12 giugno 2010
ŝpari, sparen e sparagnare
Che abbia trovato un residuo della dominazione longobarda?
mercoledì 9 giugno 2010
Les simetries català-salentino
In questi giorni sto preparando un esame (domani è il giorno della grande sfida), così mi ritrovo spesso all'università per studiare con un mio compagno di studi e, a volte, parlare con gli altri colleghi. Oggi, mangiando insieme, è uscito fuori l'argomento della cucina, dei piatti tipici catalani e a mia volta ho illustrato uno dei piatti tipici salentini (gli gnimmarieddi *-* una bontà divina). Ho provato a spiegare che cos'erano, ed è uscita fuori la parola "embolicat", che in catalano significa "avvolto", quindi per estensione "involtini".
In un primo momento non ho dato peso alla cosa però dopo, tornando a casa, ho continuato il mio studio del lessico salentino (arrivato alla lettera m) e ho letto nel dizionario del Rohlfs la parola mbojacatu, che ha lo stesso significato ed è molto simile alla parola catalana...
embolicat, mbojacatu... il significato è praticamente lo stesso (involto)
come al solito un'occhiata all'enciclopedia catalana mi aiuta a dissolvere il mistero dell'origine etimologica:
bolic | ||
| [1345; d'origen incert, podria tractar-se d'un der. de bola1, però també, més probablement, podria ser d'origen preromà, indoeuropeu, d'una arrel wol- 'vinclar, enrotllar, girar'] | |
| m 1 Fardell. | |
| 2 Manyoc de cabells, de fils, de fibres, etc. |
A quanto pare embolicat, participio di embolicar, deriva da bolic che, a sua volta, potrebbe derivare da bola, termine derivato dal latino... l'origine, gira e rigira, è sempre la stessa (la lingua degli antichi dominatori del mondo), anche se la forte differenza fra il significato di bulla in latino ed il significato di bolic in catalano e quindi di embolicar/mbojacatu mi fa pensare che probabilmente, se la mia intuizione è corretta, ci troviamo davanti a un prestito linguistico :)
Alla prossima intuizione ;)
lunedì 31 maggio 2010
Elogio dell'Esperanto
Nobile l'idea del medico polacco Zamenhof che alla fine dell'800 creò l'Esperanto, la più famosa fra le lingue artificiali ausiliari, con lo scopo di risolvere i problemi linguistici generati dalla distruzione della Torre di Babele, per i più religiosi o per coloro che amano la mitologia, o dalla naturale evoluzione delle lingue, per tutti gli altri. L'esperanto nasce come una lingua facile da imparare, regolare nelle forme, intuitiva nel lessico, semplice nella grammatica. Come già sanno gli assidui lettori di questo blog (creature che potrebbero assurgere alla sfera del mito, in quanto attualmente il sottoscritto ignora la loro effettiva esistenza) ho iniziato un corso di livello base di esperanto. Si tratta di 12 lezioni che richiedono meno di mezz'ora ciascuna, che presentano gli elementi di base della grammatica esperantista, dando allo stesso tempo ulteriori informazioni utili (p.e. il lessico) per iniziare a costruire le prime frasi in esperanto. Sono arrivato alla quinta lezione, dove viene introdotto un ingegnoso sistema di parole correlative, talmente ingegnoso da rendere facilissimo il loro apprendimento. Le riassumo qui:
KIU = chi? KIO = cosa? KIAM = quando? KIE = dove?
TIU = quella persona TIO = quella cosa TIAM = quel tempo TIE = quel luogo
ĈIU = ognuno ĈIO ogni cosa ĈIAM = sempre ĈIE = dovunque
NENIU = nessuno NENIO = nessuna cosa NENIAM = mai NENIE = in nessun luogo
ce ne sono altre, e magari il mio riassunto non è precisissimo al 100%, comunque ciò che volevo mostrare è l'estrema semplicità di questa lingua, se confrontata con qualsiasi altra lingua esistente al mondo. Per questo potrebbe essere utilizzata come lingua internazionale per facilitare la comunicazione tra i popoli. Attualmente si stima che coloro che parlano l'esperanto sono qualche milione di persone sparpagliati fra i diversi continenti. Ogni persona che imparerà l'esperanto, renderà questa lingua sempre più adatta a sostituire l'inglese (e la sua maledetta maldita fonetica) come lingua franca mondiale!
ĝis revido kaj bona nokto!
domenica 30 maggio 2010
Nsurtu / Ensurt
dall'Enciclopedia Catalana:
ensurt | ||
[s. XX; del ll. vg. *insŭrctus, participi de insŭrgĕre 'alçar-se, sorgir sobtadament'] | ||
m Surt, sobresalt. |
Per quanto riguarda l'esperanto, sono arrivato alla fine della terza lezione. La lingua si dimostra facile come prevedevo, ci vorranno settimane e settimane per arrivare a poter effettuare una conversazione in esperanto, però sono ottimista sul fatto che nel giro di un anno o poco più dovrei acquisire una fluenza notevole, arrivando a livelli migliori di quelli ottenuti con l'inglese in 8 anni di scuola più qualche occasione per praticarlo durante i miei studi universitari.
Consiglio a tutti di imparare l'esperanto, forse sarà la lingua del futuro :)
Alla prossima!
venerdì 28 maggio 2010
Esperanto (piccolo off-topic)
È da tanto tempo che lo desidero, apprendere l'esperanto, una lingua che mi è sempre piaciuta per la sua finalità, ovvero quella di costituire una lingua franca mondiale, che combina numerosi aspetti positivi: è facilissima da imparare e, inoltre, non avvantaggia nessun popolo in particolare. Ho sempre rimandato per mancanza di tempo (sto studiando catalano, e dovrei trovare anche il tempo per perfezionare spagnolo e inglese, inoltre sto facendo le ricerche sulla lingua salentina). Oggi però ho scaricato un corso di livello base della lingua, e devo dire che effettivamente l'esperanto è facilissimo. In una ventina di minuti ho imparato tutto ciò che in un altra lingua mi avrebbe fatto spendere molto più tempo: ho imparato i verbi, i sostantivi, gli aggettivi, alcune regole grammaticali basilari... ora so coniugare QUALSIASI verbo al presente, al passato e al futuro, so costruire il plurale di QUALSIASI parola, e so pronunciare correttamente QUALSIASI parola (oddio, mi devo abituare un po' al sistema ortografico, un po' differente dalla lingua italiana, però la trasparenza fonologica è massima)...
bene, tutto ciò per invogliarvi a imparare anche voi questa lingua, con la speranza che un giorno sostituisca l'inglese (e qualsiasi altra lingua) nelle comunicazioni internazionali e con la speranza che ci permetta comunicare semplicemente, abbattendo le barriere linguistiche.
Vi lascio il link del corso di esperanto, sono 12 lezioni per apprenderlo a livello base (e, dopo aver visto la prima lezione, posso immaginare che alla fine, con un vocabolario a disposizione, potrò tradurre qualsiasi testo!):
http://www.kurso.com.br/
mercoledì 26 maggio 2010
Buccare / Bolcar
dall'Enciclopèdia catalana:
bolcar | ||
[1280; del ll. vg. *volvicare 'embolcar, capgirar'] |
Resta sempre il solito dubbio: una evoluzione parallela del latino volgare, o un prestito linguistico? Purtroppo non sono filologo e non posso risolvere questo dubbio!
Fins aviat :)
martedì 25 maggio 2010
Nu pinnulu sobbra la lengua 2 - Pronomi personali soggetto + verbo avere
Per l'elaborazione dello standard salentino, è necessario effettuare delle scelte: prendere tutte le varianti esistenti, analizzarle, e determinare caso per caso quali parole o forme apparterranno allo "standard" o meno.
Nella mia proposta di standard considererò il dialetto di base, ovvero quello che maggiormente darà ispirazione, il dialetto leccese. Cercherò di far sentire l'influenza anche delle parlate brindisino-tarantine, nonché di quelle di altri paesi o di altre città nella provincia di Lecce.
Detto ciò, in questo nuovo "pinnulu sobbra la lengua" analizzerò due punti della grammatica: i pronomi personali soggetto e il verbo avere.
Tradizionalmente i pronomi personali soggetto, nel dialetto leccese, sono i seguenti: Ieu/Iou, Tie, Iddhu/Iddha, Nui, 'Ui/Vui, Iddhi/Iddhe; tenendo in considerazione che: nel pronome personale soggetto Ieu la i ha un suono semiconsonantico, è molto diffuso il pronome personale di seconda persona "tu" (come nell'italiano), e che inoltre comincio a pensare che prevedere grafie separate per i suoni alveolari e i suoni retroflessi potrebbe rendere troppo complicata l'ortografia (meglio lasciare i suoni retroflessi come una variante allofona dei suoni alveolari!), si propongono i seguenti pronomi personali soggetto standard:
Jeu
Tu
Iddu - Idda
Nui
Vui ('Ui)
Iddi / Idde / Loru
Per quanto riguarda il verbo avere (aire), utilizzato nella funzione di ausiliare per la costruzione dei tempi composti, propongo:
PRESENTE
--------------
Jeu aggiu [àddƷu]
Tu ai (a') [ài, a]
Iddu ae ('e) [àe, e]
Nui imu [ímu]
Vui iti [íti]
Iddi ànnu [ànnu] (con accento grafico per distinguerlo da annu = anno)
IMPERFETTO
-----------------
Jeu avia ('ia) [avía, ía]
Tu avivi ('ivi) [avívi, ívi]
Iddu avia ('ia) [avía, ía]
Nui avíamu ('íamu) [avíamu, íamu]
Vui aviu ('iu) [avíu, íu]
Iddi avíanu ('íanu) [avíanu, íanu]
PASSATO REMOTO
----------------------
Jeu ibbi [íbbi]
Tu isti [ísti]
Iddu ibbe [íbbe]
Nui íbbimu [íbbimu]
Vui ístiu [ístiu]
Iddi íbbera [íbbera]
CONGIUNTIVO PRESENTE (forma verbale poco usata)
------------------------------
(Jeu) aggia [àddƷa]
(Tu) aggi [àddƷi]
(Iddu) aggia [àddƷa]
(Nui) aggiamu [addƷàmu]
(Vui) aggiati [addƷàti]
(Iddi) àggianu [àddƷanu]
CONGIUNTIVO IMPERFETTO (poco usato, per esempio: avissi bbutu (avessi avuto) )
-----------------------------------
(Jeu) avissi ('issi) [avíssi, íssi]
(Tu) avissi ('issi) [avíssi, íssi]
(Iddu) avisse ('isse) [avísse, ísse]
(Nui) avíssemu ('íssemu) [avíssemu, íssemu]
(Vui) avíssiu ('íssiu) [avíssiu, íssiu]
(Iddi) avíssera ('íssera) [avíssera, íssera]
IMPERATIVO
-----------------
(Tu) aggi [àddƷi]
(Vui) íti [íti] (con accento grafico per distinguerlo dall'indicativo presente)
PARTICIPIO PASSATO : utu [útu]
Nel Rohlfs sono riportate anche alcune forme per il condizionale (1ª persona sing: avarría, avería e 2ª persona sing: avarríssi) però sono cadute in disuso, essendo il condizionale sostituito dall'indicativo imperfetto.
giovedì 13 maggio 2010
Nu pinnulu sobbra la lengua 1 - L'occlusiva retroflessa sonora "ddh"
Man mano che raccolgo informazioni sulla lingua salentina (parole, modi di dire, caratteristiche grammaticali), e mi informo sul processo di standardizzazione di una lingua (e Pompeu Fabra a tal riguardo è un ottimo insegnante), mi rendo conto che è fondamentale stabilire alcune convenzioni ortografiche, rispettando le quali costruire lo standard. Ciò vuol dire stabilire quella corrispondenza fra suoni e scrittura che attualmente manca nel salentino, così come in molte altre lingue parlate nel territorio italiano. Il processo non sempre è semplice: mentre per alcuni suoni o gruppi di suoni l'ortografia latina o italiana, nonché la stessa consuetudine, forniscano un'inequivocabile direzione da seguire, vi sono altri casi (soprattutto suoni non presenti in italiano) in cui ciò non accade.
Uno di questi casi è la consonante occlusiva retroflessa sonora, che è presente nel siciliano e in alcune varianti del salentino (quelle dell'area leccese); fino ad ora ho incontrato almeno tre maniere diverse di rappresentare quel suono:
beḍḍu, beddhu, beddhru (e naturalmente anche il "beddu" utilizzato da noi salentini settentrionali, dove tale suono non è presente)
Partendo dall'osservazione che nella quasi totalità dei casi non v'è un'opposizione dd/ḍḍ che abbia valore distintivo fra due diverse parole, si potrebbe giungere ad una prima proposta che sarebbe quella di eliminare da un'eventuale ortografia standard la rappresentazione di quel gruppo sonoro e, al massimo, prevederlo nella pronuncia, creando la stessa situazione di ambiguità presente in italiano con la s (vd. "casa", "cosacco" s sorda / s sonora);
Un'altra possibilità è quella di prevedere la convivenza di due diverse grafie entrambe accettate (p.e. beddu e beddhu); non sono un fan di questa opzione, perché manterrebbe molto forti le differenze fra le diverse parlate salentine, differenze che, se da un lato non dobbiamo eliminare del tutto, dall'altro dovremmo cercare di attenuare;
sono quindi fautore di una terza possibilità: prevedere una grafia distinta per questo gruppo sonoro, utilizzando come pronuncia standard quella più frequente nel leccese (dopotutto è nel cuore del Salento che la lingua è in un certo senso più "pura", termine col quale non voglio fare una classificazione di bontà o di prestigio, ma semplicemente voglio indicare il fatto che i dialetti settentrionali del salentino sono influenzati dalle altre lingue parlate nei territori adiacenti) e consentendo magari anche la pronuncia settentrionale (evitando cioè che dd / ḍḍ abbia un valore distintivo); sarà forse un po' difficile per chi non è leccese abituarsi a questa grafia, commettendo lo stesso genere di errori che è commesso dagli spagnoli quando devono scrivere una parola con b o con v, o dai catalani con le vocali atone, però alla fine anche in italiano si commettono tanti errori (accellerazione *un brivido mi scuote*) e ci sono grafie ambigue (il gruppo "ci+vocale" p.e. "cielo", "celo", si pronunciano ugualmente). In conclusione, conscio di vantaggi e svantaggi di questo approccio, voglio sostenere questa soluzione...
per quanto riguarda la grafia, sosterrò l'uso del trigrafo "ddh" perché ritengo che la ḍ, sebbene bella esteticamente, potrebbe creare problemi di digitazione e trascrizione; inoltre penso che porre una "r" e scrivere "beddhru" o "cavaddhru" sia una grafia particolarmente ridondante (si pensi alla lunghezza di una parola che contenga due volte questo gruppo fonetico!)
quindi scriverò:
cavaddhu
beddhu
ecc. ecc.
nonostante non sia la grafia utilizzata a Francavilla XD però per proporre uno standard salentino, devo essere il primo ad accettare compromessi fra il salentino dei singoli paesi e un salentino più "universale", che possa essere utilizzato come mezzo di comunicazione!
Mi scuso per eventuali errori grammaticali o per la mancanza di chiarezza di questo messaggio, però sono 8 mesi che parlo l'italiano molto raramente... e inoltre sono le 2 di notte e ho tanto sonno ^^ mi sta va corcu :D
Inoltre mi scuso con eventuali linguisti per la mancanza di termini tecnici che possano esprimere più precisamente le idee di cui sto parlando, ma ripeto che sono le 2 di notte e non ho mai studiato fonetica, anche se mi sono interessato molto al tema e ho fatto ricerche per soddisfare le mie curiosità.
Buona notte a tutti, pigghiate stu pinnulu e priparatevi allu prossimu!
martedì 11 maggio 2010
Una prefazione interessante
Sino alla prima metà del sec. XX noi leccesi, nella stragrande maggioranza, parlavamo raramente e più o meno bene la lingua italiana e usualmente e bene, invece, il dialetto locale, la lingua dei nostri padri, dalla cui viva voce l'avevamo appresa.
Quando venne istituita la scuola obbligatoria e prese a diffondersi l'istruzione, le famiglie delle classi popolari cominciarono a considerare la propria parlata paesana dapprima con antipatia, poi con disprezzo, addirittura con vergogna in quanto che la ritenevano un segno di ignoranza, un marchio di sottosviluppo, o comunque ritenevano il dialetto un ostacolo all'apprendimento perfetto dello scrivere e del parlare in italiano.
Era una concezione evidentemente errata, così come è certamente sbagliato ritenere che il dialetto sia un'erba nociva da sradicare. Sarebbe ciò una grave perdita, giacché il dialetto ha una sua storia interessante, conserva la civiltà dei nostri antenati, ha un ricco lessico, una sua grammatica e una sua sintassi, che rispecchiano l'anima, la cultura, i modi di pensare e di agire e operare dei nostri predecessori. Il dialetto, dunque, è una lingua complessa e nobile; del resto anche l'italiano, in origine, non era altro che il dialetto fiorentino. La lingua dei nostri padri, pertanto, insieme con la lingua nazionale, deve essere tenuta in grande considerazione perché ha, come l'altra, una grande importanza, essendo il nostro idioma il risultato della ricca antica storia spirituale sociale e culturale delle genti leccesi; un linguaggio, il nostro, fiorito in un ambiente principalmente rurale e artigianale, fatto di semplicità e di realismo, di povertà anche, e, tuttavia, di forte attaccamento alla patria terra.
Il dialetto leccese - ripetiamo - è una lingua completa ed evoluta, tanto che è bastata a soddisfare nel corso di molti secoli le molteplici esigenze creatrici, realistiche e fantastiche dell'animo popolare, e le esigenze artistiche di tanti poeti in vernacolo; un idioma, si consideri, che fa risalire i suoi primi balbettii in tempi remotissimi, anteriori alla nascita di Gesù Cristo; cominciò il suo lento evolversi, infatti, 2.200 anni fa, immediatamente dopo che gli antichi Romani ebbero completata nell'anno 266 a. C. la conquista delle terre abitate dai Sallentini.
Allora, alle popolazioni vinte i vincitori imposero le proprie leggi e la propria lingua, il latino (non il latino letterario e convenzionale dei dotti, ma quello familiare e spontaneo del volgo, la parlata della plebe urbana e rurale e il gergo dei soldati). Fu, comunque, interesse degli abitanti indigeni apprendere l'idioma dei conquistatori, perché ciò agevolava tra loro i rapporti sociali quotidiani, sicché a poco a poco il 'latino volgare' si andò sovrapponendo alla parlata locale.
Cominciarono ad essere accolte nel lessico indigeno (il messapico?) parole prettamente latine quali, per esempio, bùccula, carrara, fìstula, insìta, màchina, mèrula, musca, sìmula, spàtula, umbra, cùrrere, dìcere, mètere, curtu[s], pandu[s], tristu[s], intra, ecc. Tale fenomeno di assorbimento, di assimilazione e di rielaborazione linguistica da parte dei Sallentini si protrasse all'incirca fino al VI sec. d. C.; tuttavia, il latino appreso dalla popolazione locale risultò alla fine diverso pure dal 'latino volgare' dei coloni romani stanziati nella nostra penisola, e ne venne fuori un idioma del tutto particolare e caratteristico, elaborato secondo le qualità, le capacità, i mezzi espressivi peculiari degli abitanti, il linguaggio dei quali si mise a produrre parole differenti nella forma pur conservandone il significato, per esempio: lat. ansula = lecc. àsula, bruculus = rùculu, carraticia = carratizza, granarium = ranaru, hominem = òmmene, machinula = macìnula, sarcina = sàrcena, turtur = tùrtura, mucedus = mùcetu, pisinnus = piccinnu, nudius tertius = nustiersu, signum est = segnummeste, ecc.
Purtroppo non ci sono giunti documenti scritti (semmai ce ne furono!) che provassero l'esistenza di una parlata latino-salentina arcaica, rozza ed elementare. Ma di tale esistenza possiamo essere certi, non fosse altro che per l'evidenza della derivazione diretta dal latino popolare di migliaia di parole dialettali leccesi, le quali presentano tuttavia differenze assai marcate di pronunzia e di grafia tra volgare e leccese; per esempio: aucellus>aceδδu, celsus>gèusu, clocullus>chiuδδu, digitus>tìsçetu, exercitus>sièrsetu, stella>stiδδa, amplus>àpulu, laridosus>lardusu, emendare>mmèndere, fabellare>faeδδare, reviviscere>berìscere, ecc.
E' anche certo che quella parlata arcaica, arricchendosi attraverso il corso dei secoli prima con elementi linguistici dei successivi popoli conquistatori (principalmente Bizantini e Longobardi, Saraceni, Francesi, Spagnoli) e integrandosi poi, a partire dal XII sec., con l'apporto consistente dell'italiano popolare, diventò essa stessa una nuova lingua costituita da nuovi elementi fonetici, morfologici, sintattici e lessicali di varie e diverse derivazioni; per esempio: anca (long. hanka), biffa (long. wiffa), rappa (gotico krappa); e poi: ànesi, càmpia, fitu, tutumàgghiu, reme-nìa, provenienti rispettivamente dalle voci greche ànison, kàmpe, phytòn, titumàlion, trimenìa; e inoltre dagli arabi barda'a, garrafa, funduq, tammar sono derivati i leccesi arda, carrafa, fùndecu, tamarru; i termini francesi boìt, cheminée, jalne, mortier, ouate, toupet si sono trasformati in buatta, cemenèa, sçiàlenu, murtieri, uatta, tuppu; mentre gli spagnoli pelea, erdad, ufano, atrasar, callar sono diventati pelèa, erdate, ufanu, ntrassare, quagghiare.
Una lingua 'nuova', dunque, una lingua vera e propria, che non era più la lingua madre indigena, ma non era neppure l'idioma dei dominatori: era ormai il cosiddetto 'dialetto leccese', una parlata autonoma che si rendeva riconoscibile per i suoi particolari e precipui caratteri fonologici e morfologici e lessicali, presentando numerose differenze che riguardavano la pronunzia e quindi la grafia delle parole, l'uso degli elementi grammaticali e sintattici, la struttura stessa del pensiero e del discorso; una lingua, insomma, oltremodo interessante.
Questo dialetto finì per diventare la lingua dei Leccesi, l'unica lingua conosciuta e parlata dai ceti popolari urbani e campagnoli, un idioma compiuto e idoneo a soddisfare qualsiasi esigenza espressiva. Aveva solo un limite: quello di costituire una parlata locale, di essere, cioè, intesa e compresa in un ambito limitato, in un territorio ristretto quale era ed è Lecce e il suo precipuo contado, il capoluogo e la sua provincia.
Questa lingua sino a non molti anni fa la conoscevano e la parlavano tutti i Leccesi e i padri la trasmettevano sempre più arricchita ai figli. Ecco, noi l'abbiamo voluta raccogliere intera in questo 'dizionario' non per riesumarla e diffonderla tra le nuove generazioni (un dialetto in declino, per non dire in estinzione, da nessuno e in nessun modo può essere salvato!), ma al solo scopo di documentarla come fatto culturale, di conservarla come attestazione linguistica, glottologica, etnica, di registrarla col valore - come dire? - di 'ricupero archeologico'.
Solo su una cosa non sono d'accordo: un dialetto (LINGUA!) in declino può essere salvato, ci sono vari esempi di simili successi in passato (si pensi che in Israele ora parlano una lingua che era praticamente morta!) e magari il salentino risusciterà in tutto il suo splendore! :)
mercoledì 28 aprile 2010
Canuscu na carusa
Canuscu ‘na carusa tunna e beddha
vicinu casa mia staie te casa.
martedì 27 aprile 2010
L'árvulu t'aulî
lunedì 26 aprile 2010
N'i-meil interessanti
This re-interpretation of a word to coin a new word is called back-formation: devising a word from what appears to be a derivative word.
This re-analysis of words can be in error or in humor, done on purpose. About 110 years ago when British troops were released after a long siege in a town called Mafeking in South Africa. It sparked wild celebrations in Britain. The town name Mafeking was jocularly treated as a gerund and a verb form was coined: to maffick (to celebrate).
This re-interpretation of a word to coin a new word is called back-formation: devising a word from what appears to be a derivative word.
This re-analysis of words can be in error or in humor, done on purpose. About 110 years ago when British troops were released after a long siege in a town called Mafeking in South Africa. It sparked wild celebrations in Britain. The town name Mafeking was jocularly treated as a gerund and a verb form was coined: to maffick (to celebrate).
The word we now know as cherry was originally cherise (in French it's still called cerise today), but as that seemed to be plural, people erroneously spoke of a cherry when referring to a single fruit.