domenica 8 agosto 2010

Il tesoro degli aragonesi: somiglianze tra la lingua catalana e la lingua salentina

Una bandiera sventola nella Plaça de Sant Jaume, dal palazzo di origine medievale che è oggi conosciuto come Palau de la Generalitat, sede della presidenza della Catalunya. Sullo sfondo color dorato son disegnate quattro bande di un vivido color rosso.

Una delle leggende sull’origine della “Senyera”, una delle bandiere più antiche d’Europa e forse la prima ad essere usata come bandiera di uno stato, afferma che, ai tempi dell’assedio di Barcellona da parte dei mori (IX secolo), il re Carlo il Calvo tracciò con le sue dita insanguinate quattro righe sullo scudo dorato del moribondo Goffredo il Villoso, conte di Barcellona e considerato fondatore della nazione catalana. Qualunque sia la vera origine e la datazione della Senyera (la leggenda è falsa in quanto contiene un anacronismo: Carlo il Calvo morì 20 anni prima di Goffredo il Villoso), venne adottata dai sovrani della corona d’Aragona ed utilizzata nei territori da loro conquistati. Un delfino guizzante fu aggiunto per formare lo stemma della circoscrizione della Terra d’Otranto, al quale venne messa in bocca una mezzaluna quando Alfonso d’Aragona fu protagonista di una nuova vittoria contro gli invasori islamici, in questo caso di etnia turca, nel 1481. Quello stemma, leggermente modificato, è usato ancor oggi, a più di mezzo secolo di distanza dalla vittoria degli aragonesi, come stemma della provincia di Lecce.

Il dominio aragonese non ha lasciato traccia di sè solamente nell’araldica salentina e nei colori con cui è identificato il Salento (Gjallurussu e’ lu culure, comu lu sule, comu lu core. Unu è fŭecu e l’àutru e’ amore). Aragonese è infatti il castello d’Otranto, ricostruito dopo la già citata vittoria contro i turchi. Un’altra importante traccia aragonese è il castello di forma trapezoidale eretto ad Acaya, frazione di Vernole, da Gian Giacomo dell’Acaya in periodo rinascimentale. Anche numerose torri di avvistamento costiere furono costruite in quel periodo con funzione antisaracena e sono ancor oggi visibili da colui che percorre il litorale salentino.

Meno visibili rispetto ad una torre, ad un castello, o al giallo ed al rosso šcattusi, sono le tracce che il catalano, lingua utilizzata nelle corti aragonesi, ha lasciato nelle parlate della Terra d’Otranto. Numerose sono infatti le somiglianze, gli elementi lessicali e grammaticali che, a volte evidenti, a volte un po’ nascoste, possono essere trovate nelle lingue salentina e catalana. A volte tali somiglianze possono essere spiegate con la comune provenienza di ambedue dalla lingua latina, mentre altre volte si tratta dell’influenza culturale della lingua catalana sui vernacoli del volgo.

Non sono un linguista, e mi sono avvicinato da pochissimo tempo all’affascinante mondo dell’etimologia. Ciò nonostante cercherò di riassumere brevemente alcune osservazioni da me effettuate nel periodo trascorso nella Catalunya, patria della lingua catalana, per motivi di studio. Ciò che dirò avrà valore di semplici osservazioni linguistiche: rimando a persone più dotte, istruite maggiormente sul tema, ed interessate ad approfondire, il verificare la bontà di ciò che dirò.
Il viaggiatore salentino che ascoltasse per la prima volta parlare un catalano rimarrebbe colpito dalla notevole diffusione, se confrontata con le lingue italiana e spagnola, del suono vocalico [u], un’abbondanza che è presente anche nel salentino. Il sistema vocalico catalano è formato da ben 8 vocali, le stesse della lingua italiana con l’aggiunta della vocale neutra ә, quel suono a metà fra una [a] e una [e] presente, ad esempio, nella lingua napoletana. La particolarità del catalano è che, sebbene nella scrittura siano presenti sia la ‘o’ che la ‘u’ in posizione atona, entrambe le lettere si pronunciano con il suono di u (la o si pronuncia come tale solo quando è vocale tonica). Il fenomeno della neutralizzazione di [o] e [u] atone in [u] è presente anche nella lingua salentina, la cui ortografia ha sempre risentito dell’influsso dell’ortografia italiana particolarmente trasparente dal punto di vista fonologico (più o meno, le parole si pronunciano
esattamente come si scrivono). Tale particolarità, da sola, crea una grandissima quantità di analogie tra le due lingue catalana e salentina. A titolo di esempio:

[SAL] jeu parlu [CAT] jo parlo (pron: parlu)
[SAL] jeu tornu [CAT] jo torno (pron: tornu)
[SAL] nui turnamu [CAT] nosaltres tornem (pron: turnem)
[SAL] unore [CAT] honor (pron: unór)
[SAL] cumeta [CAT] cometa (pron: cumeta)

Si tratta di un elenco lunghissimo (sfogliando un dizionario catalano si possono trovare tantissimi altri esempi). Il fenomeno della neutralizzazione è tipico delle lingue meridionali estreme (salentino, calabrese meridionale e siciliano) e della lingua sarda. Lingue parlate in zone dell’Italia che fecero parte della Corona d’Aragona in epoca medievale. Non mi stupirebbe affatto che sia proprio nel periodo di dominazione catalana che vada ricercata la comparsa di tale fenomeno fonetico nella lingua salentina.

Un’altra caratteristica notevole che accomuna il salentino alle lingue iberiche è la terminazione in –ia dell’imperfetto dei verbi della seconda e terza coniugazione. Si ha quindi in catalano: jo tenia, jo volia (pron: vulía), jo dormia (pron: durmía).

Altre piccole somiglianze riguardano l’uso dei verbi essere (ser), stare (estar), avere (haver), tenere (tenir). Come è ben noto, in salentino l’uso di questi verbi è molto diverso rispetto all’italiano. A volte fonte di confusione e di errori nel parlare italiano, è in realtà un potentissimo vantaggio per chiunque voglia apprendere una lingua iberica (catalano, spagnolo e, credo, anche portoghese): nella quasi totalità dei casi sarà sufficiente effettuare una sorta di traduzione letteraria dal salentino alla lingua straniera. In catalano il verbo ser è utilizzato per esprimere qualità permanenti ([SAL] ete àutu [CAT] és alt) al contrario del verbo estar legato a qualità transitorie ([SAL] stau malatu [CAT] estic malalt ; [SAL] ddò stai? [CAT] on estas?). La possessione di qualcosa (oggetto o relazione famigliare) non è espressa dal verbo haver bensì dal verbo tenir ([SAL] tegnu nnu prubbrema [CAT] tinc un problema, pronuncia: prublema; [SAL] tènenu tre frati [CAT] tenen tres germans). Infine il verbo haver è utilizzato come ausiliare per la costruzione di tutti i tempi composti, anche dei verbi intransitivi ([SAL] aggju scjutu [CAT] he anat; *SAL+ ‘íamu turnati [CAT] havíem tornat) nonché per la costruzione perifrastica haver de + infinito equivalente al salentino air’a + infinito ([SAL] ann’a vvíncere [CAT] han de vèncer): cambia la preposizione ma la costruzione è molto simile.

Infine non è da escludere che la congiunzione e pronome relativo ca, sebbene di origine latina (dai vari quem, quid, quia, quam), potrebbe essere un importante prestito linguistico catalano. Il catalano que, per effetto della neutralizzazione delle vocali atone [e] ed [a] in [ә], si pronuncia [kә] e, quindi, molto simile, per chi non ha l’orecchio abituato al suono della “e neutra”, al salentino ca ([SAL] La cristjana ca imu truatu [CAT] La dona que (kә) hem trobat).

Ecco alcune delle somiglianze lessicali tra catalano e salentino da me trovate in questi ultimi mesi:

an: preposizione in; simile al catalano en (per la già citata neutralizzazione [e],[a] -> [ә] si pronuncia әn quindi prossimo nel suono ad [an]): [SAL] an celu [CAT] en cel (pron: әn sέl)
buccare: capovolgersi, ribaltarsi; simile al catalano bolcar (pron: bulcà) derivato dal latino volgare volvicare;
cascja: cassa; identico nella fonetica al catalano caixa (che ha anche il significato di “banca”). Dal latino capsa.
ddunarsi: accorgersi, rendersi conto; l’etimologia proposta dal Garrisi è il lat. volg. addo(vi)nare; comunque è probabile che possa essere un prestito del catalano adonar-se (pron. adunarse), anche perché nella lingua siciliana, come ben noto parente stretta del salentino, il termine appare per la prima volta all’inizio del XIV secolo nel “Libru de lu dialagu de sanctu Gregoriu” di Giovanni Campulu: Kistu monacu davanti de li monachi paria ki fachissi abstinencia ma jn privatu maniava e saturàvassi benj: li monachi non si nde adunavanu de zo ki fachìa.
mbojacatu: frattaglie di carne ravvolte in budello (è un termine registrato dal Rohlfs ed utilizzato a Galatina e Maglie per indicare gli gnummarjeḍḍi / turcinjeḍḍi); in catalano l’involtino è l’embolicat, dal verbo embolicar (avvolgere) di origine incerta, che potrebbe derivare dal latino bulla o, più probabilmente, dalla radice indoeuropea wol- : avvolgere, girare, curvare.
muccaturu: fazzoletto da naso; Rohlfs propone come etimologia: *lat. *muccatorium ‘panno per il moccio’, base anche del franc. mouchoir]. Simile al catalano mocador (pron: mucadó). Nella lingua siciliana, nonostante l’origine latina, è di origine catalana e registrata per la prima volta nel 1464. Potrebbe essere un prestito anche nel salentino.
nsurtu: spavento; simile al catalano ensurt, dal latino volgare insŭrctus, participio di insŭrgĕre (alzarsi improvvisamente).
prescjarse: rallegrarsi; l’origine è il latino pretiare; resta da verificare se possa essere stato introdotto dai catalani attraverso il loro prear-se (vantarsi, gloriarsi, lodarsi) di uguale etimologia.
scarfare: scaldare, riscaldare; simile al catalano escalfar, proveniente dal latino volgare calefare, riduzione del latino calefacĕre;
vanna: banda, parte, lato; nonostante “banda” sia presente anche in italiano con lo stesso significato di vanna, è una forma decisamente caduta in disuso (credo di non averla mai sentita, e solo un controllo sul dizionario italiano mi ha messo al corrente della sua esistenza); al contrario in catalano è ancora molto utilizzata ([SAL] de nna vanna a ll’àutra [CAT] de una banda a l’altra)
vašcju, vašcja: basso, bassa; simile nella fonetica al catalano: baix, baixa (pron: [bá∫] – [bá∫ә]); dal lat. bassus.

Il problema della provenienza delle parole di origine latina, quando sono presenti nelle lingue di popoli che hanno avuto forte influenza sulla lingua oggetto di studio, richiede studi più approfonditi. Spesso, in assenza di documenti che testimonino l’evoluzione della lingua, è difficile capire quali parole siano state utilizzate con continuità fin dai tempi della gloriosa Roma e quali parole siano state ingoiate dalle sabbie del tempo per poi essere reintrodotte secoli dopo da popoli invasori di lingua neolatina. In ogni caso trovo suggestiva l’idea di uno stretto legame tra il nostro popolo e quello catalano, risalente ad un tempo in cui i nostri avi e i loro avi potevano considerarsi compatrioti, ed ancora presente nei tratti comuni conservati dalle nostre lingue.

Chiudo, in attesa dei vostri commenti, delle vostre critiche e delle vostre riflessioni, con un breve pezzo tratto dal libro di una filologa catalana, Carme Junyent, che fa riflettere sullo sforzo che la nostra generazione è chiamata a compiere per evitare la morte della nostra lingua a causa della seducente tentazione del monolinguismo (problematica molto sentita dai catalani visto che la loro lingua è stata a lungo in pericolo a causa dell’importanza culturale della lingua spagnola, della quale il catalano era considerato un dialetto).

Quan es redueixen les funcions d'una llengua (en quina llengua parlo amb la família, els amics, els companys de feina o d'estudi, el senyor director o la dona de fer feines, els desconeguts, el bidell, el dependent, el metge o el jutge...) ja estem lluitant amb el pitjor dels enemics: l'invisible. [...] Quan es degrada l'estatus d'una llengua i - sobretot - el dels seus parlants (parlar la llengua pròpia implica ser titllat de provincià, xovinista, retrògrad, etc.), ja podem buscar ràpidament un contrapés a la pressió, si no volem que la comunitat es llenci de ple al món feliç que li ofereix la llengua dominant.
Carme Junyent - Vida i mort de les llengües

Cŭandu se rendúcunu le funzjoni de nna lingŭa (an cce lingŭa parlu cu lla famigghja, cu lli amici, cu lli cumpagni de la fatia o de li studi, cu llu signure direttore o cu lla donna ca face li lavori, cu lli scanuscjuti, lu bitellu, lu tipendente, lu tuttore o lu gjútice...) gjà sta’ lluttamu contra llu nemicu chjú ffjaccu: l’invisíbbile. *...+ Cŭandu se mputtaniscja la cundezjone de nna lingŭa e, prima de tuttu, cŭiḍḍa de ci la parla (parlare la lingŭa propja ímplica éssere cunsiteratu pruvincjale, scjovinista, stravivu, etc.), gjà putimu cercare velocemente nnu cuntrupisu a lla pressjone, ci no vvulimu ca la cummunitate se mena ritta ritta a llu mundu felice ca le offre la lingŭa duminante.

domenica 1 agosto 2010

Lu sarvataggju

Pubblico sul blog il mio primo racconto in lingua salentina, scritto sfruttando le mie conoscenze native del dialetto francavillese, ma prendendo come modello il dialetto di Cavallino, più simile al leccese che vedo come modello per una lingua salentina standard, ed utilizzando alcune innovazioni ortografiche (presenza di j anziché i nei digrammi-trigrammi e nei dittonghi, uso della ŭ per il suono [w] che sostituisce la u nei dittonghi; accentazione delle sole parole non piane, cercando di porre una sorta di ordine all'accentazione senza regole in circolazione: molte volte sembra che le parole vengano accentate "ad capocchiam", uso della ḍḍ per trascrivere il suono retroflesso con significato anche etimologico; ż per il suono [dz], trascrizione del raddoppiamento fonosintattico).


Lu clobbu ardente sta’ ccuncrutia la soa ljenta calata mberu l’uriżżonte. Li soi rasci càuti tingíanu lu celu statòticu cu nfenite spumature te culuri: viola ḍḍa ddu lu mmensu celu tuzzava contra llu mare, te culure portucallu chjú ssobbra, ma puru te rosa e tte russu fenca spumare a nn’ażżurru ca dêntava sempre chjú ccupu, chjú gnuru, chjú nnotte. Lu mare, rappulatu pe lli leggeri soffi te lu jentu, rrefrettia te l’astru la càuta luce, ca paria cŭasi danzare sobbra la soa superfice: nnu spettaculu ca la natura prupunia ogne ddia, sempre símele ma mai ucŭale, picca misterjusu ma ognemmotu chinu te mascia.
Subbra lla cima te lu prumuntorju, úrtima punta te l’ísula, nna vagnona usservava cu attenzione lu paesaggju straurdinarju. La luce te lu sule llumenava te ‘sta vagnona li lŭenghi capiḍḍi ca, llušcjati te li rèfuli te jentu, comu fili durati se mmuíanu intra ll’àrja. La soa ŭardata era pjersa mberu cŭiḍḍu postu màscicu, refuggju scundutu ca picca cristjani canuscíanu. Iḍḍa fice nnu passu mberu lu spuntune, cunfine làbbile ca divitia l’ísula te lu mmensu mare, e ttoppu fice nn’àutru passu, e ncora nn’àutru, fenca rriau a lla punta. Nn’àttemu te pendurícula , e ttoppu abbašcju, abbašcju mberu li cupi scuffundi , nnu zumpu ca rrepetia ogne ssira e cca la facia sèntere viva te neu, cŭasi fusse nnu ritu te beruta .
Chjutiu li ŭecchi piccè te cŭiḍḍa manera putia sèntere chju ffŭerti le sensazioni ca pruava. Ntise l’àrja ca la llušcjava, la sprušcjava pe ssubbra, uppunia nn’inútele resestenzja a lla soa catuta. E ttoppu, a ll’antresattu , putiu vvèrtere lu scŭentru cu ll’accŭa, e nnu sensu te friddu pe llu passaggju, propria an cŭiḍḍu puntu, de nna currente scelata. Surtantu llora apriu li ŭecchi, ca putera vítere lu fundale marinu beḍḍu de bonesinnu , ca dêntava chju ccupu frattantu ca la luce te lu sule lassava l’ísula.
Ma cŭarcheccosa sciu stŭertu e, puru ci la vagnona era nn’àbbele nnatatrice, an cŭiḍḍu puntu la currente era troppu forte. L’accŭa la pigghjau e ccumenzau cu lla face ggirare turnu turnu a nnu puntu, lu centru de cŭiḍḍu vòrtice ca l’era catturata. No ssapia comu scappare te cŭiḍḍa trampa , te la natura ca la rechjamava a sè e ca paria cŭasi ca no lla vulia lassare. Lu pànicu cuncŭistau lu core sou, lu stessu fícera la desperazjone, la paura, lu sensu te imputenzja te nanzi a lla forza te lu mare.
Iḍḍa se tuffava ogne ddia an cŭiḍḍu postu màscicu, e ogne ffiata se sentia beríscere , comu ci l’accŭa te lu mare putia llâre la lurdaria, la fatia, lu dulore ca era mmuntunatu . E nno ll’era mai capetatu njenti. Fena ccŭiḍḍu mumentu.
"Piccè me sta' ffani qŭistu?" pensau, mentre ca le forze la lassaunu, e lle úrtime riserve d’ossíscenu intra lli purmoni soi veníanu traspurmate an anitrite craúnica. Frattantu ca li ŭecchi soi se chiutíanu, e lla vagnona se lassava sce’ a llu testinu spjatatu ca la sta’ spettava, iḍḍa putiu vítere nn’aletta te nnu pisce crŭessu crŭessu.
Lu cŭerpu era crande crande, criggju cu ccrŭesse macchje bjanche, símbuli ca la natura era tisegnatu ḍḍa ssobbra, cŭasi fússera frízzuli de nnu musàicu. Nnu musu ngrazziatu cu ddo’ ŭecchiceḍḍi spjerti e simpateci fŭèrunu l’úrtema cosa ca vitiu, prima cu lla banduna la cuscenzja. Nnu fišcu l’úrtemu sŭenu.
Se dešcetau su lla spjaggja, sana e ssarva, cu nnišcjuna memorja te cuiḍḍu ca era successu, nišcjuna idea te cŭantu tjempu era passatu. Lu celu era gjà notte, cu lla luna argentata ca ddumava l’arja, rrefrettendu la soa luce intra llu mare. Tussau, caccjandu l’accŭa ca s’era feccata intra llu pjettu sua e, cu nnu spuersu, reusciu cu sse minte an peti. Ŭardau mberu lu mare llumenatu e lle parse cu vvite ca an luntananza nn’aletta se nde sta’ šcia. Sapia ca cŭiḍḍu crande derfinu l’era sarvata.