lunedì 31 maggio 2010
Elogio dell'Esperanto
Nobile l'idea del medico polacco Zamenhof che alla fine dell'800 creò l'Esperanto, la più famosa fra le lingue artificiali ausiliari, con lo scopo di risolvere i problemi linguistici generati dalla distruzione della Torre di Babele, per i più religiosi o per coloro che amano la mitologia, o dalla naturale evoluzione delle lingue, per tutti gli altri. L'esperanto nasce come una lingua facile da imparare, regolare nelle forme, intuitiva nel lessico, semplice nella grammatica. Come già sanno gli assidui lettori di questo blog (creature che potrebbero assurgere alla sfera del mito, in quanto attualmente il sottoscritto ignora la loro effettiva esistenza) ho iniziato un corso di livello base di esperanto. Si tratta di 12 lezioni che richiedono meno di mezz'ora ciascuna, che presentano gli elementi di base della grammatica esperantista, dando allo stesso tempo ulteriori informazioni utili (p.e. il lessico) per iniziare a costruire le prime frasi in esperanto. Sono arrivato alla quinta lezione, dove viene introdotto un ingegnoso sistema di parole correlative, talmente ingegnoso da rendere facilissimo il loro apprendimento. Le riassumo qui:
KIU = chi? KIO = cosa? KIAM = quando? KIE = dove?
TIU = quella persona TIO = quella cosa TIAM = quel tempo TIE = quel luogo
ĈIU = ognuno ĈIO ogni cosa ĈIAM = sempre ĈIE = dovunque
NENIU = nessuno NENIO = nessuna cosa NENIAM = mai NENIE = in nessun luogo
ce ne sono altre, e magari il mio riassunto non è precisissimo al 100%, comunque ciò che volevo mostrare è l'estrema semplicità di questa lingua, se confrontata con qualsiasi altra lingua esistente al mondo. Per questo potrebbe essere utilizzata come lingua internazionale per facilitare la comunicazione tra i popoli. Attualmente si stima che coloro che parlano l'esperanto sono qualche milione di persone sparpagliati fra i diversi continenti. Ogni persona che imparerà l'esperanto, renderà questa lingua sempre più adatta a sostituire l'inglese (e la sua maledetta maldita fonetica) come lingua franca mondiale!
ĝis revido kaj bona nokto!
domenica 30 maggio 2010
Nsurtu / Ensurt
dall'Enciclopedia Catalana:
ensurt | ||
[s. XX; del ll. vg. *insŭrctus, participi de insŭrgĕre 'alçar-se, sorgir sobtadament'] | ||
m Surt, sobresalt. |
Per quanto riguarda l'esperanto, sono arrivato alla fine della terza lezione. La lingua si dimostra facile come prevedevo, ci vorranno settimane e settimane per arrivare a poter effettuare una conversazione in esperanto, però sono ottimista sul fatto che nel giro di un anno o poco più dovrei acquisire una fluenza notevole, arrivando a livelli migliori di quelli ottenuti con l'inglese in 8 anni di scuola più qualche occasione per praticarlo durante i miei studi universitari.
Consiglio a tutti di imparare l'esperanto, forse sarà la lingua del futuro :)
Alla prossima!
venerdì 28 maggio 2010
Esperanto (piccolo off-topic)
È da tanto tempo che lo desidero, apprendere l'esperanto, una lingua che mi è sempre piaciuta per la sua finalità, ovvero quella di costituire una lingua franca mondiale, che combina numerosi aspetti positivi: è facilissima da imparare e, inoltre, non avvantaggia nessun popolo in particolare. Ho sempre rimandato per mancanza di tempo (sto studiando catalano, e dovrei trovare anche il tempo per perfezionare spagnolo e inglese, inoltre sto facendo le ricerche sulla lingua salentina). Oggi però ho scaricato un corso di livello base della lingua, e devo dire che effettivamente l'esperanto è facilissimo. In una ventina di minuti ho imparato tutto ciò che in un altra lingua mi avrebbe fatto spendere molto più tempo: ho imparato i verbi, i sostantivi, gli aggettivi, alcune regole grammaticali basilari... ora so coniugare QUALSIASI verbo al presente, al passato e al futuro, so costruire il plurale di QUALSIASI parola, e so pronunciare correttamente QUALSIASI parola (oddio, mi devo abituare un po' al sistema ortografico, un po' differente dalla lingua italiana, però la trasparenza fonologica è massima)...
bene, tutto ciò per invogliarvi a imparare anche voi questa lingua, con la speranza che un giorno sostituisca l'inglese (e qualsiasi altra lingua) nelle comunicazioni internazionali e con la speranza che ci permetta comunicare semplicemente, abbattendo le barriere linguistiche.
Vi lascio il link del corso di esperanto, sono 12 lezioni per apprenderlo a livello base (e, dopo aver visto la prima lezione, posso immaginare che alla fine, con un vocabolario a disposizione, potrò tradurre qualsiasi testo!):
http://www.kurso.com.br/
mercoledì 26 maggio 2010
Buccare / Bolcar
dall'Enciclopèdia catalana:
bolcar | ||
[1280; del ll. vg. *volvicare 'embolcar, capgirar'] |
Resta sempre il solito dubbio: una evoluzione parallela del latino volgare, o un prestito linguistico? Purtroppo non sono filologo e non posso risolvere questo dubbio!
Fins aviat :)
martedì 25 maggio 2010
Nu pinnulu sobbra la lengua 2 - Pronomi personali soggetto + verbo avere
Per l'elaborazione dello standard salentino, è necessario effettuare delle scelte: prendere tutte le varianti esistenti, analizzarle, e determinare caso per caso quali parole o forme apparterranno allo "standard" o meno.
Nella mia proposta di standard considererò il dialetto di base, ovvero quello che maggiormente darà ispirazione, il dialetto leccese. Cercherò di far sentire l'influenza anche delle parlate brindisino-tarantine, nonché di quelle di altri paesi o di altre città nella provincia di Lecce.
Detto ciò, in questo nuovo "pinnulu sobbra la lengua" analizzerò due punti della grammatica: i pronomi personali soggetto e il verbo avere.
Tradizionalmente i pronomi personali soggetto, nel dialetto leccese, sono i seguenti: Ieu/Iou, Tie, Iddhu/Iddha, Nui, 'Ui/Vui, Iddhi/Iddhe; tenendo in considerazione che: nel pronome personale soggetto Ieu la i ha un suono semiconsonantico, è molto diffuso il pronome personale di seconda persona "tu" (come nell'italiano), e che inoltre comincio a pensare che prevedere grafie separate per i suoni alveolari e i suoni retroflessi potrebbe rendere troppo complicata l'ortografia (meglio lasciare i suoni retroflessi come una variante allofona dei suoni alveolari!), si propongono i seguenti pronomi personali soggetto standard:
Jeu
Tu
Iddu - Idda
Nui
Vui ('Ui)
Iddi / Idde / Loru
Per quanto riguarda il verbo avere (aire), utilizzato nella funzione di ausiliare per la costruzione dei tempi composti, propongo:
PRESENTE
--------------
Jeu aggiu [àddƷu]
Tu ai (a') [ài, a]
Iddu ae ('e) [àe, e]
Nui imu [ímu]
Vui iti [íti]
Iddi ànnu [ànnu] (con accento grafico per distinguerlo da annu = anno)
IMPERFETTO
-----------------
Jeu avia ('ia) [avía, ía]
Tu avivi ('ivi) [avívi, ívi]
Iddu avia ('ia) [avía, ía]
Nui avíamu ('íamu) [avíamu, íamu]
Vui aviu ('iu) [avíu, íu]
Iddi avíanu ('íanu) [avíanu, íanu]
PASSATO REMOTO
----------------------
Jeu ibbi [íbbi]
Tu isti [ísti]
Iddu ibbe [íbbe]
Nui íbbimu [íbbimu]
Vui ístiu [ístiu]
Iddi íbbera [íbbera]
CONGIUNTIVO PRESENTE (forma verbale poco usata)
------------------------------
(Jeu) aggia [àddƷa]
(Tu) aggi [àddƷi]
(Iddu) aggia [àddƷa]
(Nui) aggiamu [addƷàmu]
(Vui) aggiati [addƷàti]
(Iddi) àggianu [àddƷanu]
CONGIUNTIVO IMPERFETTO (poco usato, per esempio: avissi bbutu (avessi avuto) )
-----------------------------------
(Jeu) avissi ('issi) [avíssi, íssi]
(Tu) avissi ('issi) [avíssi, íssi]
(Iddu) avisse ('isse) [avísse, ísse]
(Nui) avíssemu ('íssemu) [avíssemu, íssemu]
(Vui) avíssiu ('íssiu) [avíssiu, íssiu]
(Iddi) avíssera ('íssera) [avíssera, íssera]
IMPERATIVO
-----------------
(Tu) aggi [àddƷi]
(Vui) íti [íti] (con accento grafico per distinguerlo dall'indicativo presente)
PARTICIPIO PASSATO : utu [útu]
Nel Rohlfs sono riportate anche alcune forme per il condizionale (1ª persona sing: avarría, avería e 2ª persona sing: avarríssi) però sono cadute in disuso, essendo il condizionale sostituito dall'indicativo imperfetto.
giovedì 13 maggio 2010
Nu pinnulu sobbra la lengua 1 - L'occlusiva retroflessa sonora "ddh"
Man mano che raccolgo informazioni sulla lingua salentina (parole, modi di dire, caratteristiche grammaticali), e mi informo sul processo di standardizzazione di una lingua (e Pompeu Fabra a tal riguardo è un ottimo insegnante), mi rendo conto che è fondamentale stabilire alcune convenzioni ortografiche, rispettando le quali costruire lo standard. Ciò vuol dire stabilire quella corrispondenza fra suoni e scrittura che attualmente manca nel salentino, così come in molte altre lingue parlate nel territorio italiano. Il processo non sempre è semplice: mentre per alcuni suoni o gruppi di suoni l'ortografia latina o italiana, nonché la stessa consuetudine, forniscano un'inequivocabile direzione da seguire, vi sono altri casi (soprattutto suoni non presenti in italiano) in cui ciò non accade.
Uno di questi casi è la consonante occlusiva retroflessa sonora, che è presente nel siciliano e in alcune varianti del salentino (quelle dell'area leccese); fino ad ora ho incontrato almeno tre maniere diverse di rappresentare quel suono:
beḍḍu, beddhu, beddhru (e naturalmente anche il "beddu" utilizzato da noi salentini settentrionali, dove tale suono non è presente)
Partendo dall'osservazione che nella quasi totalità dei casi non v'è un'opposizione dd/ḍḍ che abbia valore distintivo fra due diverse parole, si potrebbe giungere ad una prima proposta che sarebbe quella di eliminare da un'eventuale ortografia standard la rappresentazione di quel gruppo sonoro e, al massimo, prevederlo nella pronuncia, creando la stessa situazione di ambiguità presente in italiano con la s (vd. "casa", "cosacco" s sorda / s sonora);
Un'altra possibilità è quella di prevedere la convivenza di due diverse grafie entrambe accettate (p.e. beddu e beddhu); non sono un fan di questa opzione, perché manterrebbe molto forti le differenze fra le diverse parlate salentine, differenze che, se da un lato non dobbiamo eliminare del tutto, dall'altro dovremmo cercare di attenuare;
sono quindi fautore di una terza possibilità: prevedere una grafia distinta per questo gruppo sonoro, utilizzando come pronuncia standard quella più frequente nel leccese (dopotutto è nel cuore del Salento che la lingua è in un certo senso più "pura", termine col quale non voglio fare una classificazione di bontà o di prestigio, ma semplicemente voglio indicare il fatto che i dialetti settentrionali del salentino sono influenzati dalle altre lingue parlate nei territori adiacenti) e consentendo magari anche la pronuncia settentrionale (evitando cioè che dd / ḍḍ abbia un valore distintivo); sarà forse un po' difficile per chi non è leccese abituarsi a questa grafia, commettendo lo stesso genere di errori che è commesso dagli spagnoli quando devono scrivere una parola con b o con v, o dai catalani con le vocali atone, però alla fine anche in italiano si commettono tanti errori (accellerazione *un brivido mi scuote*) e ci sono grafie ambigue (il gruppo "ci+vocale" p.e. "cielo", "celo", si pronunciano ugualmente). In conclusione, conscio di vantaggi e svantaggi di questo approccio, voglio sostenere questa soluzione...
per quanto riguarda la grafia, sosterrò l'uso del trigrafo "ddh" perché ritengo che la ḍ, sebbene bella esteticamente, potrebbe creare problemi di digitazione e trascrizione; inoltre penso che porre una "r" e scrivere "beddhru" o "cavaddhru" sia una grafia particolarmente ridondante (si pensi alla lunghezza di una parola che contenga due volte questo gruppo fonetico!)
quindi scriverò:
cavaddhu
beddhu
ecc. ecc.
nonostante non sia la grafia utilizzata a Francavilla XD però per proporre uno standard salentino, devo essere il primo ad accettare compromessi fra il salentino dei singoli paesi e un salentino più "universale", che possa essere utilizzato come mezzo di comunicazione!
Mi scuso per eventuali errori grammaticali o per la mancanza di chiarezza di questo messaggio, però sono 8 mesi che parlo l'italiano molto raramente... e inoltre sono le 2 di notte e ho tanto sonno ^^ mi sta va corcu :D
Inoltre mi scuso con eventuali linguisti per la mancanza di termini tecnici che possano esprimere più precisamente le idee di cui sto parlando, ma ripeto che sono le 2 di notte e non ho mai studiato fonetica, anche se mi sono interessato molto al tema e ho fatto ricerche per soddisfare le mie curiosità.
Buona notte a tutti, pigghiate stu pinnulu e priparatevi allu prossimu!
martedì 11 maggio 2010
Una prefazione interessante
Sino alla prima metà del sec. XX noi leccesi, nella stragrande maggioranza, parlavamo raramente e più o meno bene la lingua italiana e usualmente e bene, invece, il dialetto locale, la lingua dei nostri padri, dalla cui viva voce l'avevamo appresa.
Quando venne istituita la scuola obbligatoria e prese a diffondersi l'istruzione, le famiglie delle classi popolari cominciarono a considerare la propria parlata paesana dapprima con antipatia, poi con disprezzo, addirittura con vergogna in quanto che la ritenevano un segno di ignoranza, un marchio di sottosviluppo, o comunque ritenevano il dialetto un ostacolo all'apprendimento perfetto dello scrivere e del parlare in italiano.
Era una concezione evidentemente errata, così come è certamente sbagliato ritenere che il dialetto sia un'erba nociva da sradicare. Sarebbe ciò una grave perdita, giacché il dialetto ha una sua storia interessante, conserva la civiltà dei nostri antenati, ha un ricco lessico, una sua grammatica e una sua sintassi, che rispecchiano l'anima, la cultura, i modi di pensare e di agire e operare dei nostri predecessori. Il dialetto, dunque, è una lingua complessa e nobile; del resto anche l'italiano, in origine, non era altro che il dialetto fiorentino. La lingua dei nostri padri, pertanto, insieme con la lingua nazionale, deve essere tenuta in grande considerazione perché ha, come l'altra, una grande importanza, essendo il nostro idioma il risultato della ricca antica storia spirituale sociale e culturale delle genti leccesi; un linguaggio, il nostro, fiorito in un ambiente principalmente rurale e artigianale, fatto di semplicità e di realismo, di povertà anche, e, tuttavia, di forte attaccamento alla patria terra.
Il dialetto leccese - ripetiamo - è una lingua completa ed evoluta, tanto che è bastata a soddisfare nel corso di molti secoli le molteplici esigenze creatrici, realistiche e fantastiche dell'animo popolare, e le esigenze artistiche di tanti poeti in vernacolo; un idioma, si consideri, che fa risalire i suoi primi balbettii in tempi remotissimi, anteriori alla nascita di Gesù Cristo; cominciò il suo lento evolversi, infatti, 2.200 anni fa, immediatamente dopo che gli antichi Romani ebbero completata nell'anno 266 a. C. la conquista delle terre abitate dai Sallentini.
Allora, alle popolazioni vinte i vincitori imposero le proprie leggi e la propria lingua, il latino (non il latino letterario e convenzionale dei dotti, ma quello familiare e spontaneo del volgo, la parlata della plebe urbana e rurale e il gergo dei soldati). Fu, comunque, interesse degli abitanti indigeni apprendere l'idioma dei conquistatori, perché ciò agevolava tra loro i rapporti sociali quotidiani, sicché a poco a poco il 'latino volgare' si andò sovrapponendo alla parlata locale.
Cominciarono ad essere accolte nel lessico indigeno (il messapico?) parole prettamente latine quali, per esempio, bùccula, carrara, fìstula, insìta, màchina, mèrula, musca, sìmula, spàtula, umbra, cùrrere, dìcere, mètere, curtu[s], pandu[s], tristu[s], intra, ecc. Tale fenomeno di assorbimento, di assimilazione e di rielaborazione linguistica da parte dei Sallentini si protrasse all'incirca fino al VI sec. d. C.; tuttavia, il latino appreso dalla popolazione locale risultò alla fine diverso pure dal 'latino volgare' dei coloni romani stanziati nella nostra penisola, e ne venne fuori un idioma del tutto particolare e caratteristico, elaborato secondo le qualità, le capacità, i mezzi espressivi peculiari degli abitanti, il linguaggio dei quali si mise a produrre parole differenti nella forma pur conservandone il significato, per esempio: lat. ansula = lecc. àsula, bruculus = rùculu, carraticia = carratizza, granarium = ranaru, hominem = òmmene, machinula = macìnula, sarcina = sàrcena, turtur = tùrtura, mucedus = mùcetu, pisinnus = piccinnu, nudius tertius = nustiersu, signum est = segnummeste, ecc.
Purtroppo non ci sono giunti documenti scritti (semmai ce ne furono!) che provassero l'esistenza di una parlata latino-salentina arcaica, rozza ed elementare. Ma di tale esistenza possiamo essere certi, non fosse altro che per l'evidenza della derivazione diretta dal latino popolare di migliaia di parole dialettali leccesi, le quali presentano tuttavia differenze assai marcate di pronunzia e di grafia tra volgare e leccese; per esempio: aucellus>aceδδu, celsus>gèusu, clocullus>chiuδδu, digitus>tìsçetu, exercitus>sièrsetu, stella>stiδδa, amplus>àpulu, laridosus>lardusu, emendare>mmèndere, fabellare>faeδδare, reviviscere>berìscere, ecc.
E' anche certo che quella parlata arcaica, arricchendosi attraverso il corso dei secoli prima con elementi linguistici dei successivi popoli conquistatori (principalmente Bizantini e Longobardi, Saraceni, Francesi, Spagnoli) e integrandosi poi, a partire dal XII sec., con l'apporto consistente dell'italiano popolare, diventò essa stessa una nuova lingua costituita da nuovi elementi fonetici, morfologici, sintattici e lessicali di varie e diverse derivazioni; per esempio: anca (long. hanka), biffa (long. wiffa), rappa (gotico krappa); e poi: ànesi, càmpia, fitu, tutumàgghiu, reme-nìa, provenienti rispettivamente dalle voci greche ànison, kàmpe, phytòn, titumàlion, trimenìa; e inoltre dagli arabi barda'a, garrafa, funduq, tammar sono derivati i leccesi arda, carrafa, fùndecu, tamarru; i termini francesi boìt, cheminée, jalne, mortier, ouate, toupet si sono trasformati in buatta, cemenèa, sçiàlenu, murtieri, uatta, tuppu; mentre gli spagnoli pelea, erdad, ufano, atrasar, callar sono diventati pelèa, erdate, ufanu, ntrassare, quagghiare.
Una lingua 'nuova', dunque, una lingua vera e propria, che non era più la lingua madre indigena, ma non era neppure l'idioma dei dominatori: era ormai il cosiddetto 'dialetto leccese', una parlata autonoma che si rendeva riconoscibile per i suoi particolari e precipui caratteri fonologici e morfologici e lessicali, presentando numerose differenze che riguardavano la pronunzia e quindi la grafia delle parole, l'uso degli elementi grammaticali e sintattici, la struttura stessa del pensiero e del discorso; una lingua, insomma, oltremodo interessante.
Questo dialetto finì per diventare la lingua dei Leccesi, l'unica lingua conosciuta e parlata dai ceti popolari urbani e campagnoli, un idioma compiuto e idoneo a soddisfare qualsiasi esigenza espressiva. Aveva solo un limite: quello di costituire una parlata locale, di essere, cioè, intesa e compresa in un ambito limitato, in un territorio ristretto quale era ed è Lecce e il suo precipuo contado, il capoluogo e la sua provincia.
Questa lingua sino a non molti anni fa la conoscevano e la parlavano tutti i Leccesi e i padri la trasmettevano sempre più arricchita ai figli. Ecco, noi l'abbiamo voluta raccogliere intera in questo 'dizionario' non per riesumarla e diffonderla tra le nuove generazioni (un dialetto in declino, per non dire in estinzione, da nessuno e in nessun modo può essere salvato!), ma al solo scopo di documentarla come fatto culturale, di conservarla come attestazione linguistica, glottologica, etnica, di registrarla col valore - come dire? - di 'ricupero archeologico'.
Solo su una cosa non sono d'accordo: un dialetto (LINGUA!) in declino può essere salvato, ci sono vari esempi di simili successi in passato (si pensi che in Israele ora parlano una lingua che era praticamente morta!) e magari il salentino risusciterà in tutto il suo splendore! :)