domenica 16 dicembre 2012

Una mela d'oro (non) originaria della Persia


È uno dei frutti associati all'arrivo dell'estate, dolcissimo e ricco di vitamine. Il suo nome italiano deriva dalla parola araba "أَلْبَرْقُوق, Barquq" e, analogamente a tante altre parole provenienti dall'arabo, è giunta con l'articolo "al" annesso. È l'albicocca, originaria della Cina, dalla quale lentamente si estese fino ad arrivare in Armenia, dove venne scoperta da Alessandro Magno. La diffusione nel Mediterraneo fu consolidata dagli arabi, ed ecco spiegata l'etimologia della parola, che è comune anche ad altre lingue come lo spagnolo (albaricoque), il catalano (albercoc, forse la più fedele all'origine araba), francese (abricot), inglese (apricot), tedesco (aprikose), finlandese (aprikoosi), esperanto (abrikoto), ecc. ecc.



Eppure in questo lunghissimo elenco non v'è il Salentino, essendo conosciuta nel Salento con due nomi: crisòmmula e spergia.

La parola "crisòmmula" è di origine greca, da χρυσόμηλον, parola composta traducibile come "mela d'oro" e comune ad altre lingue della penisola italiana, come il napoletano (dove indica l'albicocca vesuviana), il calabrese (crisòmulu) o l'abruzzese (crisòmmela). Curiosamente in greco è conosciuta come βερίκοκο, beríkoko, molto più simile a "percoca", tranne nel dialetto cipriota, dove invece è χρυσομηλιά, Chrysomilia.

Invece l'etimologia di "spergia" è, secondo il Rohlfs, da ricercare in una forma arabo-latina proveniente dal lat. persica, in quanto ritenuta (erroneamente) proveniente dall'Iran, anticamente conosciuto come Persia. Sempre secondo il Rohlfs, condivide l'etimologia con le parole "albérchiga" (parola spagnola, sebbene almeno qui in Catalunya non l'abbia mai sentita nel linguaggio comunemente parlato) e il francese "alberge".

domenica 25 novembre 2012

Trimèntiri


Ringraziando l'utente Eliozanna per il suo interesse nel mio lavoro, che prosegue, seppur lentamente per via degli innumerevoli impegni con l'università, approfitto per parlare di questa parola "Trimèntiri".

Si tratta di una parola usata soprattutto nella zona tarantina e brindisina, infatti il Rohlfs la riporta con numerose varianti (trimèntere, trimèntiri, triminteri), col significato di "guardare, osservare", oltre a "fare attenzione" in alcuni contesti.

Nel leccese si usa il verbo "tenementire", con lo stesso significato, p.e. "tieni mente = sta' attento" o "tenimente!! = guarda!!"

A quanto pare, il verbo è una trasformazione della locuzione "tenere mente", contrattasi col passare del tempo. Riporto, di seguito, ciò che ho trovato nel dizionario leccese-italiano di Antonio Garrisi:


tenementìre tr. e intr.; pres. tegnumente (tegnu mente), tienimente (tieni mente), tenemente (tene mente), tenementimu, tenementiti, tenenumente (tènenu mente) ; impf. tenementìa, ecc.; p. rem. tenementìi,… tenementemmu; pp. tenementutu* tr. Guardare attentamente, osservare, tenere d'occhio: tenementìanu le caruseδδe ca se llaànu osservavano le fanciulle che si lavavano * intr. Porre attenzione, dare ascolto; riflettere: tenementiti a ccenca bu tìcenu li randi càrrechi te sperènziaponete attenzione a ciò che vi dicono gli anziani ricchi di esperienza. [da un incr. tra tenìre, mìntere + mente]. 
Da c. p. Li soi beδδizzi su' ffiuri de monte / li soi bianchizzi de luna crescente; / quandu sale alla chèsia ponte ponte, / face mpaccìre ci la tenemente.


tenire mente tr. e intr.; pres. tegnu mente,… tenimu mente, ecc.; impf. tenìa mente,… tenìamu mente, ecc.; p. rem. tinni mente,… tìnnemu mente, ecc.; pp. tenutu mente * tr. Guardare con attenzione, osservare con interesse * intr. Porre mente, riflettere.
DE D. Nui beδδi mei, nu lli tenimu mente / ca è sacrilèggiu alla felicità.

venerdì 23 marzo 2012

Tavola di coniugazione verbo FARE


Eccomi di nuovo con voi a condividere una tavola di coniugazione dei verbi, questa volta è il turno del verbo "fare" che troverete coniugato nei vari modi indicativo, congiuntivo, progressivo, imperativo, ecc.



Spero possa esservi utile :)

sabato 17 marzo 2012

Ce fine agghiu fattu? (Nustierzu e nusterzignu)

Sono ormai mesi che non scrivo in questo blog, eppure ogni volta che osservo le statistiche del blog www.yalocomimos.com, il blog di esperienze culinarie di me e Esa (la mia fidanzata), rimango sorpreso dal numero di visite che il blog, seppur inattivo, continua ad avere.

Vi chiederete ce fine agghiu fattu, beh, è un periodo abbastanza impegnativo e, prima la tesi della laurea specialistica e ora tutti gli impegni dovuti al dottorato che ho da poco iniziato, beh... insomma, tempo non ne ho! Comunque non ho abbandonato del tutto le mie ricerche sulla lingua salentina, e continuo a immaginare (molto utopicamente perché è una lotta contro una serie di fattori molto più forti) un giorno in cui si arrivi a un riconoscimento del salentino come lingua e, in quanto tale, della sua dignità.

Sto raccogliendo materiale per un dizionario che contenga termini mutuati da vari dialetti del salentino, con un'ortografia chiara, semplice e che non lasci adito a dubbi sulla pronuncia delle parole. Sarà un lavoro lungo, e per ora sono arrivato a "solo" 3279 parole. Cercherò di condividere su questo blog alcune "esperienze linguistiche".

Quella di oggi ha a che fare con una mia amica che mi chiedeva se esistesse nella lingua salentina un modo rapido per dire "ieri, l'altrieri, il giorno che precede l'altrieri" così come "domani, dopodomani, il giorno che segue il dopodomani" diventa crai, piscrai, piscridhi (nota: "dh" indica l'occlusiva retroflessa sonora, a volte anche indicata con altre grafie come "ddh", "ddhr", "dhr", "ḍḍ"; sebbene le prime due grafie siano le più diffuse, preferisco usare una grafia con una sola d perché più sintetica, fra anche il De Dominicis preferiva questa grafia).

Ebbene sì, a quanto pare esiste un'omonima tripletta data da: jeri, nustierzu, nusterzignu e che credo sia caduta in disuso, almeno nel brindisino, in quanto in tutta la mia vita non ho mai sentito gli ultimi due termini. Mi farebbe piacere sapere se dalle vostre parti si usano queste parole (o termini simili).

Per concludere, curiosità etimologiche di queste parole:

Nusterzignu - È il diminutivo di nustierzu;

Nustierzu - Dal latino "nudiustertius", che significava appunto il giorno prima di ieri. A quanto pare l'usano anche in Calabria.

Osci - Dal latino "hoc die", in questo giorno.

Crai - Dal latino "cras", che significa domani e non, come verrebbe istintivo pensare, dall'omonima catena di supermercati.

Piscrai - Dal latino "post cras", letteralmente dopo domani.

Piscridhi - Diminutivo di piscrai;

venerdì 1 ottobre 2010

Il neologismo del giorno

Eccomi tornato dopo un lungo periodo di pausa. La mia attività di riscoperta della lingua salentina continua, ed ho il piacere di annunciare che presto l'utile coniugatore di verbi online Verbix (http://www.verbix.com) sarà disponibile anche per la lingua salentina (ho inviato una email al gestore dell'attività, offrendogli il mio contributo, che è stato accettato).
Nel frattempo cerco di realizzare un utile dizionario italiano-salentino, che possa essermi d'aiuto nello scrivere racconti, poesie. Nel fare ciò cerco di aiutarmi con i dizionari già esistenti, anche se molto spesso esistono parole in italiano che non hanno corrispondente in salentino. Si tratta perlopiù di termini abbastanza colti, e non utilizzati nel linguaggio comune. Molte volte si tratta di parole il cui significato è sconosciuto alla maggior parte di noi italiano-parlanti. Cosa fare con queste parole? Ed è qui che interviene la mia attività... chiamiamola "creativa"... risalgo alla possibile etimologia della parola italiana (o magari catalana/spagnola) e cerco di salentinizzarla... la creatività consiste nel non realizzare una semplice trasformazione fonetica, ma anzi derivare la parola dall'etimologia...
Il neologismo di oggi è la parola abbacinare:

Abbacinàre significa accecare tenendo dinanzi agli occhi aperti del condannato un bacino rovente. Nella costruzione della parola interviene bacino, che in salentino è limbu/limmu. Per questo il neologismo proposto oggi è llimbare/llimmare.

A presto :)

domenica 8 agosto 2010

Il tesoro degli aragonesi: somiglianze tra la lingua catalana e la lingua salentina

Una bandiera sventola nella Plaça de Sant Jaume, dal palazzo di origine medievale che è oggi conosciuto come Palau de la Generalitat, sede della presidenza della Catalunya. Sullo sfondo color dorato son disegnate quattro bande di un vivido color rosso.

Una delle leggende sull’origine della “Senyera”, una delle bandiere più antiche d’Europa e forse la prima ad essere usata come bandiera di uno stato, afferma che, ai tempi dell’assedio di Barcellona da parte dei mori (IX secolo), il re Carlo il Calvo tracciò con le sue dita insanguinate quattro righe sullo scudo dorato del moribondo Goffredo il Villoso, conte di Barcellona e considerato fondatore della nazione catalana. Qualunque sia la vera origine e la datazione della Senyera (la leggenda è falsa in quanto contiene un anacronismo: Carlo il Calvo morì 20 anni prima di Goffredo il Villoso), venne adottata dai sovrani della corona d’Aragona ed utilizzata nei territori da loro conquistati. Un delfino guizzante fu aggiunto per formare lo stemma della circoscrizione della Terra d’Otranto, al quale venne messa in bocca una mezzaluna quando Alfonso d’Aragona fu protagonista di una nuova vittoria contro gli invasori islamici, in questo caso di etnia turca, nel 1481. Quello stemma, leggermente modificato, è usato ancor oggi, a più di mezzo secolo di distanza dalla vittoria degli aragonesi, come stemma della provincia di Lecce.

Il dominio aragonese non ha lasciato traccia di sè solamente nell’araldica salentina e nei colori con cui è identificato il Salento (Gjallurussu e’ lu culure, comu lu sule, comu lu core. Unu è fŭecu e l’àutru e’ amore). Aragonese è infatti il castello d’Otranto, ricostruito dopo la già citata vittoria contro i turchi. Un’altra importante traccia aragonese è il castello di forma trapezoidale eretto ad Acaya, frazione di Vernole, da Gian Giacomo dell’Acaya in periodo rinascimentale. Anche numerose torri di avvistamento costiere furono costruite in quel periodo con funzione antisaracena e sono ancor oggi visibili da colui che percorre il litorale salentino.

Meno visibili rispetto ad una torre, ad un castello, o al giallo ed al rosso šcattusi, sono le tracce che il catalano, lingua utilizzata nelle corti aragonesi, ha lasciato nelle parlate della Terra d’Otranto. Numerose sono infatti le somiglianze, gli elementi lessicali e grammaticali che, a volte evidenti, a volte un po’ nascoste, possono essere trovate nelle lingue salentina e catalana. A volte tali somiglianze possono essere spiegate con la comune provenienza di ambedue dalla lingua latina, mentre altre volte si tratta dell’influenza culturale della lingua catalana sui vernacoli del volgo.

Non sono un linguista, e mi sono avvicinato da pochissimo tempo all’affascinante mondo dell’etimologia. Ciò nonostante cercherò di riassumere brevemente alcune osservazioni da me effettuate nel periodo trascorso nella Catalunya, patria della lingua catalana, per motivi di studio. Ciò che dirò avrà valore di semplici osservazioni linguistiche: rimando a persone più dotte, istruite maggiormente sul tema, ed interessate ad approfondire, il verificare la bontà di ciò che dirò.
Il viaggiatore salentino che ascoltasse per la prima volta parlare un catalano rimarrebbe colpito dalla notevole diffusione, se confrontata con le lingue italiana e spagnola, del suono vocalico [u], un’abbondanza che è presente anche nel salentino. Il sistema vocalico catalano è formato da ben 8 vocali, le stesse della lingua italiana con l’aggiunta della vocale neutra ә, quel suono a metà fra una [a] e una [e] presente, ad esempio, nella lingua napoletana. La particolarità del catalano è che, sebbene nella scrittura siano presenti sia la ‘o’ che la ‘u’ in posizione atona, entrambe le lettere si pronunciano con il suono di u (la o si pronuncia come tale solo quando è vocale tonica). Il fenomeno della neutralizzazione di [o] e [u] atone in [u] è presente anche nella lingua salentina, la cui ortografia ha sempre risentito dell’influsso dell’ortografia italiana particolarmente trasparente dal punto di vista fonologico (più o meno, le parole si pronunciano
esattamente come si scrivono). Tale particolarità, da sola, crea una grandissima quantità di analogie tra le due lingue catalana e salentina. A titolo di esempio:

[SAL] jeu parlu [CAT] jo parlo (pron: parlu)
[SAL] jeu tornu [CAT] jo torno (pron: tornu)
[SAL] nui turnamu [CAT] nosaltres tornem (pron: turnem)
[SAL] unore [CAT] honor (pron: unór)
[SAL] cumeta [CAT] cometa (pron: cumeta)

Si tratta di un elenco lunghissimo (sfogliando un dizionario catalano si possono trovare tantissimi altri esempi). Il fenomeno della neutralizzazione è tipico delle lingue meridionali estreme (salentino, calabrese meridionale e siciliano) e della lingua sarda. Lingue parlate in zone dell’Italia che fecero parte della Corona d’Aragona in epoca medievale. Non mi stupirebbe affatto che sia proprio nel periodo di dominazione catalana che vada ricercata la comparsa di tale fenomeno fonetico nella lingua salentina.

Un’altra caratteristica notevole che accomuna il salentino alle lingue iberiche è la terminazione in –ia dell’imperfetto dei verbi della seconda e terza coniugazione. Si ha quindi in catalano: jo tenia, jo volia (pron: vulía), jo dormia (pron: durmía).

Altre piccole somiglianze riguardano l’uso dei verbi essere (ser), stare (estar), avere (haver), tenere (tenir). Come è ben noto, in salentino l’uso di questi verbi è molto diverso rispetto all’italiano. A volte fonte di confusione e di errori nel parlare italiano, è in realtà un potentissimo vantaggio per chiunque voglia apprendere una lingua iberica (catalano, spagnolo e, credo, anche portoghese): nella quasi totalità dei casi sarà sufficiente effettuare una sorta di traduzione letteraria dal salentino alla lingua straniera. In catalano il verbo ser è utilizzato per esprimere qualità permanenti ([SAL] ete àutu [CAT] és alt) al contrario del verbo estar legato a qualità transitorie ([SAL] stau malatu [CAT] estic malalt ; [SAL] ddò stai? [CAT] on estas?). La possessione di qualcosa (oggetto o relazione famigliare) non è espressa dal verbo haver bensì dal verbo tenir ([SAL] tegnu nnu prubbrema [CAT] tinc un problema, pronuncia: prublema; [SAL] tènenu tre frati [CAT] tenen tres germans). Infine il verbo haver è utilizzato come ausiliare per la costruzione di tutti i tempi composti, anche dei verbi intransitivi ([SAL] aggju scjutu [CAT] he anat; *SAL+ ‘íamu turnati [CAT] havíem tornat) nonché per la costruzione perifrastica haver de + infinito equivalente al salentino air’a + infinito ([SAL] ann’a vvíncere [CAT] han de vèncer): cambia la preposizione ma la costruzione è molto simile.

Infine non è da escludere che la congiunzione e pronome relativo ca, sebbene di origine latina (dai vari quem, quid, quia, quam), potrebbe essere un importante prestito linguistico catalano. Il catalano que, per effetto della neutralizzazione delle vocali atone [e] ed [a] in [ә], si pronuncia [kә] e, quindi, molto simile, per chi non ha l’orecchio abituato al suono della “e neutra”, al salentino ca ([SAL] La cristjana ca imu truatu [CAT] La dona que (kә) hem trobat).

Ecco alcune delle somiglianze lessicali tra catalano e salentino da me trovate in questi ultimi mesi:

an: preposizione in; simile al catalano en (per la già citata neutralizzazione [e],[a] -> [ә] si pronuncia әn quindi prossimo nel suono ad [an]): [SAL] an celu [CAT] en cel (pron: әn sέl)
buccare: capovolgersi, ribaltarsi; simile al catalano bolcar (pron: bulcà) derivato dal latino volgare volvicare;
cascja: cassa; identico nella fonetica al catalano caixa (che ha anche il significato di “banca”). Dal latino capsa.
ddunarsi: accorgersi, rendersi conto; l’etimologia proposta dal Garrisi è il lat. volg. addo(vi)nare; comunque è probabile che possa essere un prestito del catalano adonar-se (pron. adunarse), anche perché nella lingua siciliana, come ben noto parente stretta del salentino, il termine appare per la prima volta all’inizio del XIV secolo nel “Libru de lu dialagu de sanctu Gregoriu” di Giovanni Campulu: Kistu monacu davanti de li monachi paria ki fachissi abstinencia ma jn privatu maniava e saturàvassi benj: li monachi non si nde adunavanu de zo ki fachìa.
mbojacatu: frattaglie di carne ravvolte in budello (è un termine registrato dal Rohlfs ed utilizzato a Galatina e Maglie per indicare gli gnummarjeḍḍi / turcinjeḍḍi); in catalano l’involtino è l’embolicat, dal verbo embolicar (avvolgere) di origine incerta, che potrebbe derivare dal latino bulla o, più probabilmente, dalla radice indoeuropea wol- : avvolgere, girare, curvare.
muccaturu: fazzoletto da naso; Rohlfs propone come etimologia: *lat. *muccatorium ‘panno per il moccio’, base anche del franc. mouchoir]. Simile al catalano mocador (pron: mucadó). Nella lingua siciliana, nonostante l’origine latina, è di origine catalana e registrata per la prima volta nel 1464. Potrebbe essere un prestito anche nel salentino.
nsurtu: spavento; simile al catalano ensurt, dal latino volgare insŭrctus, participio di insŭrgĕre (alzarsi improvvisamente).
prescjarse: rallegrarsi; l’origine è il latino pretiare; resta da verificare se possa essere stato introdotto dai catalani attraverso il loro prear-se (vantarsi, gloriarsi, lodarsi) di uguale etimologia.
scarfare: scaldare, riscaldare; simile al catalano escalfar, proveniente dal latino volgare calefare, riduzione del latino calefacĕre;
vanna: banda, parte, lato; nonostante “banda” sia presente anche in italiano con lo stesso significato di vanna, è una forma decisamente caduta in disuso (credo di non averla mai sentita, e solo un controllo sul dizionario italiano mi ha messo al corrente della sua esistenza); al contrario in catalano è ancora molto utilizzata ([SAL] de nna vanna a ll’àutra [CAT] de una banda a l’altra)
vašcju, vašcja: basso, bassa; simile nella fonetica al catalano: baix, baixa (pron: [bá∫] – [bá∫ә]); dal lat. bassus.

Il problema della provenienza delle parole di origine latina, quando sono presenti nelle lingue di popoli che hanno avuto forte influenza sulla lingua oggetto di studio, richiede studi più approfonditi. Spesso, in assenza di documenti che testimonino l’evoluzione della lingua, è difficile capire quali parole siano state utilizzate con continuità fin dai tempi della gloriosa Roma e quali parole siano state ingoiate dalle sabbie del tempo per poi essere reintrodotte secoli dopo da popoli invasori di lingua neolatina. In ogni caso trovo suggestiva l’idea di uno stretto legame tra il nostro popolo e quello catalano, risalente ad un tempo in cui i nostri avi e i loro avi potevano considerarsi compatrioti, ed ancora presente nei tratti comuni conservati dalle nostre lingue.

Chiudo, in attesa dei vostri commenti, delle vostre critiche e delle vostre riflessioni, con un breve pezzo tratto dal libro di una filologa catalana, Carme Junyent, che fa riflettere sullo sforzo che la nostra generazione è chiamata a compiere per evitare la morte della nostra lingua a causa della seducente tentazione del monolinguismo (problematica molto sentita dai catalani visto che la loro lingua è stata a lungo in pericolo a causa dell’importanza culturale della lingua spagnola, della quale il catalano era considerato un dialetto).

Quan es redueixen les funcions d'una llengua (en quina llengua parlo amb la família, els amics, els companys de feina o d'estudi, el senyor director o la dona de fer feines, els desconeguts, el bidell, el dependent, el metge o el jutge...) ja estem lluitant amb el pitjor dels enemics: l'invisible. [...] Quan es degrada l'estatus d'una llengua i - sobretot - el dels seus parlants (parlar la llengua pròpia implica ser titllat de provincià, xovinista, retrògrad, etc.), ja podem buscar ràpidament un contrapés a la pressió, si no volem que la comunitat es llenci de ple al món feliç que li ofereix la llengua dominant.
Carme Junyent - Vida i mort de les llengües

Cŭandu se rendúcunu le funzjoni de nna lingŭa (an cce lingŭa parlu cu lla famigghja, cu lli amici, cu lli cumpagni de la fatia o de li studi, cu llu signure direttore o cu lla donna ca face li lavori, cu lli scanuscjuti, lu bitellu, lu tipendente, lu tuttore o lu gjútice...) gjà sta’ lluttamu contra llu nemicu chjú ffjaccu: l’invisíbbile. *...+ Cŭandu se mputtaniscja la cundezjone de nna lingŭa e, prima de tuttu, cŭiḍḍa de ci la parla (parlare la lingŭa propja ímplica éssere cunsiteratu pruvincjale, scjovinista, stravivu, etc.), gjà putimu cercare velocemente nnu cuntrupisu a lla pressjone, ci no vvulimu ca la cummunitate se mena ritta ritta a llu mundu felice ca le offre la lingŭa duminante.

domenica 1 agosto 2010

Lu sarvataggju

Pubblico sul blog il mio primo racconto in lingua salentina, scritto sfruttando le mie conoscenze native del dialetto francavillese, ma prendendo come modello il dialetto di Cavallino, più simile al leccese che vedo come modello per una lingua salentina standard, ed utilizzando alcune innovazioni ortografiche (presenza di j anziché i nei digrammi-trigrammi e nei dittonghi, uso della ŭ per il suono [w] che sostituisce la u nei dittonghi; accentazione delle sole parole non piane, cercando di porre una sorta di ordine all'accentazione senza regole in circolazione: molte volte sembra che le parole vengano accentate "ad capocchiam", uso della ḍḍ per trascrivere il suono retroflesso con significato anche etimologico; ż per il suono [dz], trascrizione del raddoppiamento fonosintattico).


Lu clobbu ardente sta’ ccuncrutia la soa ljenta calata mberu l’uriżżonte. Li soi rasci càuti tingíanu lu celu statòticu cu nfenite spumature te culuri: viola ḍḍa ddu lu mmensu celu tuzzava contra llu mare, te culure portucallu chjú ssobbra, ma puru te rosa e tte russu fenca spumare a nn’ażżurru ca dêntava sempre chjú ccupu, chjú gnuru, chjú nnotte. Lu mare, rappulatu pe lli leggeri soffi te lu jentu, rrefrettia te l’astru la càuta luce, ca paria cŭasi danzare sobbra la soa superfice: nnu spettaculu ca la natura prupunia ogne ddia, sempre símele ma mai ucŭale, picca misterjusu ma ognemmotu chinu te mascia.
Subbra lla cima te lu prumuntorju, úrtima punta te l’ísula, nna vagnona usservava cu attenzione lu paesaggju straurdinarju. La luce te lu sule llumenava te ‘sta vagnona li lŭenghi capiḍḍi ca, llušcjati te li rèfuli te jentu, comu fili durati se mmuíanu intra ll’àrja. La soa ŭardata era pjersa mberu cŭiḍḍu postu màscicu, refuggju scundutu ca picca cristjani canuscíanu. Iḍḍa fice nnu passu mberu lu spuntune, cunfine làbbile ca divitia l’ísula te lu mmensu mare, e ttoppu fice nn’àutru passu, e ncora nn’àutru, fenca rriau a lla punta. Nn’àttemu te pendurícula , e ttoppu abbašcju, abbašcju mberu li cupi scuffundi , nnu zumpu ca rrepetia ogne ssira e cca la facia sèntere viva te neu, cŭasi fusse nnu ritu te beruta .
Chjutiu li ŭecchi piccè te cŭiḍḍa manera putia sèntere chju ffŭerti le sensazioni ca pruava. Ntise l’àrja ca la llušcjava, la sprušcjava pe ssubbra, uppunia nn’inútele resestenzja a lla soa catuta. E ttoppu, a ll’antresattu , putiu vvèrtere lu scŭentru cu ll’accŭa, e nnu sensu te friddu pe llu passaggju, propria an cŭiḍḍu puntu, de nna currente scelata. Surtantu llora apriu li ŭecchi, ca putera vítere lu fundale marinu beḍḍu de bonesinnu , ca dêntava chju ccupu frattantu ca la luce te lu sule lassava l’ísula.
Ma cŭarcheccosa sciu stŭertu e, puru ci la vagnona era nn’àbbele nnatatrice, an cŭiḍḍu puntu la currente era troppu forte. L’accŭa la pigghjau e ccumenzau cu lla face ggirare turnu turnu a nnu puntu, lu centru de cŭiḍḍu vòrtice ca l’era catturata. No ssapia comu scappare te cŭiḍḍa trampa , te la natura ca la rechjamava a sè e ca paria cŭasi ca no lla vulia lassare. Lu pànicu cuncŭistau lu core sou, lu stessu fícera la desperazjone, la paura, lu sensu te imputenzja te nanzi a lla forza te lu mare.
Iḍḍa se tuffava ogne ddia an cŭiḍḍu postu màscicu, e ogne ffiata se sentia beríscere , comu ci l’accŭa te lu mare putia llâre la lurdaria, la fatia, lu dulore ca era mmuntunatu . E nno ll’era mai capetatu njenti. Fena ccŭiḍḍu mumentu.
"Piccè me sta' ffani qŭistu?" pensau, mentre ca le forze la lassaunu, e lle úrtime riserve d’ossíscenu intra lli purmoni soi veníanu traspurmate an anitrite craúnica. Frattantu ca li ŭecchi soi se chiutíanu, e lla vagnona se lassava sce’ a llu testinu spjatatu ca la sta’ spettava, iḍḍa putiu vítere nn’aletta te nnu pisce crŭessu crŭessu.
Lu cŭerpu era crande crande, criggju cu ccrŭesse macchje bjanche, símbuli ca la natura era tisegnatu ḍḍa ssobbra, cŭasi fússera frízzuli de nnu musàicu. Nnu musu ngrazziatu cu ddo’ ŭecchiceḍḍi spjerti e simpateci fŭèrunu l’úrtema cosa ca vitiu, prima cu lla banduna la cuscenzja. Nnu fišcu l’úrtemu sŭenu.
Se dešcetau su lla spjaggja, sana e ssarva, cu nnišcjuna memorja te cuiḍḍu ca era successu, nišcjuna idea te cŭantu tjempu era passatu. Lu celu era gjà notte, cu lla luna argentata ca ddumava l’arja, rrefrettendu la soa luce intra llu mare. Tussau, caccjandu l’accŭa ca s’era feccata intra llu pjettu sua e, cu nnu spuersu, reusciu cu sse minte an peti. Ŭardau mberu lu mare llumenatu e lle parse cu vvite ca an luntananza nn’aletta se nde sta’ šcia. Sapia ca cŭiḍḍu crande derfinu l’era sarvata.